SIAMO ONESTI: quando si ha la facoltà di assoldare, nel cast, Pierfrancesco Favino (Cammello) e Toni Servillo (Daytona), alla storia, per completarsi, mancano pochi dettagli. Perché loro due, insieme a pochi altri eletti, rappresentano, senza alcun rischio di venir contraddetti, il meglio attoriale maschile in circolazione. I due ex galeotti, infatti (al primo hanno diagnosticato il cancro: le chemio gli han tolto anche l’ultimo capello; il secondo è vecchio e sembra avere più di un problema con la senilità), un tempo nemici giurati nel mondo di mezzo, che finiscono impelagati, loro malgrado, in una caccia all’uomo della quale non sono lontanamente responsabili, innalzano, decisamente, l’asticella sul giudizio di Adagio, l’ultimo film di Stefano Sollima, che dopo le esperienze statunitensi torna nella sua Roma per chiudere il cerchio cinematografico aperto più di dieci anni fa con A.C.A.B. e intervallato dalle fortunatissime serie televisive Romanzo Criminale e Gomorra. La Capitale che brucia all’orizzonte, in un’estate contrassegnata da un caldo insopportabile e che manda spesso in tilt, durante le ore della notte, le centraline elettriche, è la solita terra di nessuno: politici viziosi con i ragazzini e la cocaina, carabinieri/sceriffi sensibili più alle mazzette che alla giustizia e tutti quelli che hanno dato vita alle giornate di sangue e morte della prima ondata criminale, quella degli anni ’70 e ’80, quella tristemente battezzata dalla logica della banda della Magliana. È un’altra storia di malavita, che attecchisce con nuovi gendarmi corrotti, falchi della Benemerita inesorabilmente attratti dai soldi, anziché, come giurato, dalla rettitudine, che si servono, a loro volta, di vecchi e malconci delinquenti, in una macedonia criminale dove il giovane protagonista, Gianmarco Franchini (Manuel) l’infiltrato ricattato al festino privato, che affida al Rap la sua educazione, sarà l’unico sopravvissuto di un’inevitabile mattanza. Il film, beninteso, è perfetto da qualsiasi angolazione lo si metta sotto la lente d’ingrandimento, anche grazie ad altri interessanti dettagli: Valerio Mastandrea (Polniuman), l’altro bandito, rimasto cieco, i tre disgustosi carabinieri, Adriano Giannini, Francesco Di Leva e Lorenzo Adorni e la moglie der Cammello, Silvia Salvatori, che decide di riaccogliere nella propria abitazione, mossa più da compassione che speranza, il marito che ha trascorso buona parte della sua vita in carcere. E lo è anche perché Stefano Sollima, anziché frequentare corsi di cinematografia, ha fatto tesoro di tutte le volte che il padre, Sergio, lo ha portato con sé sui set a imparare il mestiere del papà. Ma senza la magistrale trasfigurazione da malato terminale di Pierfrancesco Favino e l’esemplare falsa demenza di Toni Servillo, questo film passerebbe, e probabilmente passerà, tranquillamente in cavalleria, senza che nessuno si senta, dopo averlo visto, rinfrancato, soddisfatto, provocato, scosso. Attorno a questi due attori, che ribadiamo, vantano un’universale e poliedrica professionalità, la cinematografia nazionale sembra stia costruendo se non le sue fortune, almeno la scorta di viveri per sopravvivere. Un romanzo criminale natalizio, ci verrebbe fatta di pensare, che presto, viste le produzioni Sky e Netflix, vedremo prestissimo già sui piccoli schermi, dove tutti i cattivi e gli ex cattivi fanno la fine che avrebbero dovuto fare molto tempo prima, e dove quelle cuffiette, dalle quali si propaga la falsa dottrina rappettara, che saranno costate ‘n botto, passano, regalate, dalle orecchie di chi proverà a farsi una vita nuova a quelle di chi, con molta probabilità, erediterà il posto del padre.