PISTOIA. Ognuno deciderà di portarsi dietro il ricordo che preferisce. Immaginiamo quello della moglie, dei figli, dei parenti più stretti e conosciamo anche, perché li abbiamo visti piangere e sentiti singhiozzare, quello di alcuni suoi amici, quelli che hanno fatto con lui quasi ogni tappa del suo lungo tragitto musicale. Ma non basta la delicata onoranza funebre con la quale, l’altra sera, a Santomato, alcuni dei suoi colleghi hanno omaggiato la memoria di Nick Becattini, suonando, ognuno a modo loro, il Blues. Che piaccia o meno, Nick Becattini è stato il Blues di Pistoia e visto e considerato che questo genere musicale qualcuno gradirebbe seppellirlo, bisogna fare qualcosa. La foto di Nick che abbiamo pubblicato a corredo di questa riflessione, lo ritrae con la sua sei corde, vero, ma non mentre si sta caricando sulle spalle il groove della serata, né sta dando l’ennesima dimostrazione della sua magnificenza strumentale. Il click è stato scattato in un frangente nel quale, a intrattenere il pubblico, c’è forse un suo collega di palco che si sta prodigando in un assolo o un momento nel quale, il brano, si sta preparando a imbandire la tavola per un gran finale. O forse sta solo accordando lo strumento, prima o dopo l’inizio di uno degli innumerevoli soundcheck che ha dovuto fare per accordarsi con la piazza che lo ospitava. Vorremmo che quello sguardo, vigile, concentrato, diretto a sud ovest, fosse il manifesto della resurrezione. Non quella di Nick, certo (saranno d’accordo con noi anche i cattolici più oltranzisti), ma del Blues, quello, come cantava Fabrizio De Andrè, che a Piero fa veglia dall’ombra dei fossi grazie a mille papaveri rossi.
UN MODO per sdebitarci, con la sua musica, seppur assai modesto, ce l’abbiamo: piazza del Duomo, la sua piazza, la nostra piazza, potrebbe diventare, da subito, piazza Nick Becattini. Oh, certo, non servono le effigi. L’immortalità si sprigiona con qualcosa di immateriale e la musica, il Blues, per antonomasia, sortisce questi effetti. Specie se a suonarlo fosse uno come Nick: preciso, solenne, straordinario. Somigliava un po’ tutti i grandi ai quali si era ispirato sin da giovanotto, fino a costruirsi una propria personalità artistica, che ha a sua volta generato ispirazione per le generazioni successive: Alessandro Gonfiantini, Michele Beneforti, Danny Bronzini. Il dolore che ci stringe l’anima, parlando della sua morte, viene fortemente attenuato da quello che ha lasciato in dote a noi tutti amanti della musica: colleghi, amici, addetti ai lavori, giornalisti. Cominciammo a scrivere della sua innata, poderosa, valenza strumentale quando era ancora semplicemente Nicola Becattini seppur suonasse come se già fosse Nick Becattini. Lo si capì sin da subito, prima ancora che entrasse a far parte della Model T. Boogie, che quel giovanotto avesse numeri da fuoriclasse; lo si capiva anche quando si esibiva nei pub pistoiesi, con Enrico Cecconi alla batteria e Daniele Nesi al basso, che la sua chitarra vantasse un frasario e un dizionario abitualmente in dote a chi, della musica, ne fa quel che vuole. E fummo tutti facili e scontati profeti quando, tornato da Chicago, come sei corde di Son Seals, Sugar Blue e Malvin Taylor, venne automaticamente inserito tra i chitarristi blues più importanti d’Italia. Fu allora che Nicola divenne Nick e fu allora che da ottimo chitarrista, si trasformò in sontuoso bandleader. Se avete voglia di sapere con chi e dove si sia esibito nel Mondo, basta che vi colleghiate con un qualsiasi motore di ricerca e avrete tutte le risposte; non meravigliatevi: i nomi e le piazze che l’hanno accolto sono proprio quelle che leggete. Ha suonato e cantato fino a qualche anno fa, fino a quando la Sla gliel’ha concesso; poi, ha dovuto fermarsi, fare i conti con la crudeltà che spesso la vita impone, anche se a dargli la forza di continuare gliel’han data, oltre ai numerosissimi amici, la moglie e i loro due figli, ai quali, la sua musica, probabilmente, non basterà. Giovedì prossimo, 12 settembre, alle ore 16, nella chiesa di san Paolo, a Pistoia, si svolgeranno i funerali. Fate che sia il suo ultimo Blues: suonate, per favore, suonate.
IL PUNTO interrogativo non vuol essere blasfemo. È solo quello che mi succede quando assisto a onoranze funebri di persone che non sarebbero dovute morire. Così. Così presto. Mi è successo con mia madre, mio padre, mio cugino Antonio ed è successo anche oggi pomeriggio, quando nella chiesa di Capostrada, a Pistoia, ho assistito, in disparte, alla messa d’addio a Gianluca, morto improvvisamente una decina di giorni fa per cause che l’esame autoptico dichiarerà ufficialmente tra qualche mese. Non sono voluto mancare all’ultimo saluto al caro Gianluca non certo per provare a mettere in discussione il mio laicismo, ma solo e soltanto in onore della fraterna amicizia che mi lega a uno dei suoi fratelli, Tony, seduto sui banchi della prima fila con quel che rimane del resto della famiglia. Gianluca lo conoscevo così, come lo conoscevano in tanti, da quando i demoni si erano impadroniti del suo mondo nel quale è riuscito a vivere e convivere solo grazie al torpore di sostanze farmaceutiche che gli sono state distillate quotidianamente da quando aveva deciso di non voler più stare ufficialmente alle regole. Non ho fatto caso alle solite litanie eucaristiche della messa, ma mi sono concentrato sul Vangelo; avrei scommesso, in onore dell’invisibilità di Gianluca, che il prete che ha officiato la celebrazione, scegliesse, per l’occasione, il Vangelo secondo Matteo, quello della Parabola dei lavoratori della vigna. Non è stato così, ma non cambia nulla. Tutti quelli che l’hanno conosciuto, non solo quelli che oggi non sono voluti mancare al suo addio, lo ricorderanno così, fantastico mancino sui campi di calcio in gioventù e poi paggio surreale, infaticabile passeggiatore, con tascate di banconote disegnate sui fogli di carta e firmate dal governatore Pittelli sempre a caccia, discreta, sorniona, divertente, enigmatica e mai, mai invadente, di due euro con i quali totalizzarne dieci. Per tutta la famiglia ha parlato una nipote, con la voce rotta dall’emozione, dal pianto, da ricordi struggenti e aneddoti divertenti e da una pacata tristezza, quella che non abbandonerà nessuno di quelli che l’hanno conosciuto ogni volta che ci tornerà alla mente. Sulla bara, insieme a tanti fiori, anche una maglia da calcio, con il suo nome scritto sulle spalle e il numero 11; era un mancino imperdonabile, è vero, ma gli piaceva stare a centrocampo, da dove osservava tutto il campo, per capire da quale parte sarebbe stato utile provare a infilzare le difese degli avversari. Per Gianluca e per tutti quelli che se ne sono andati in punta dei piedi, togliendo quasi il diturbo, mi auguro davvero che gli ultimi, altrove, siano i primi.
GLI OCCHI ti si illuminavano oramai raramente e succedeva sempre e soltanto quando qualcuno, incontrandoti a spasso, ricordava di quella volta che, a pochi minuti dalla fine della partita, su punizione dal limite dell’area, piazzasti, con il tuo mancino delicato, chirurgicamente, la palla in fondo al sacco, togliendo la ragnatela dall’incrocio dei pali. I ricordi del calcio erano la pace della tua memoria, era la quiete che domava e addomesticava il tuo dolore, sordo e muto, erano l’unica cosa, della tua vita, di cui ne andavi fiero. Perché da quando la fortuna e le sue possibilità decisero di voltarti le spalle, Gianluca, sul rettangolo non sei più riuscito a entrare, di partite non ne hai più giocate. Qualcuno ha anche provato a chiamarti ancora, a convocarti, ma non ti allenavi più, da tempo, avevi perso la velocità con la quale stordivi gli avversari e poi, anche volendo, non avresti potuto giocare, perché non avevi più con te gli scarpini. Spero davvero che, chissà dove ti metteranno a trascorrere l’eternità, la gente continui a sorriderti e a ricordarti le tue gesta calcistiche e che le banconote che ti sei disegnato in casa siano ufficialmente coniate e abbiano il loro giusto valore, quello che ti consentirà di comprarti, finalmente, la felicità.
IL MONDO del calcio, non solo quello femminile, ha il dovere di fare qualcosa. Non stiamo parlando di diritti (morali e televisivi), ma di un’ex calciatrice che ora, dopo aver dispensato lustro, bel gioco, gol e traguardi importanti ai club che l’assoldarono e alla Nazionale, ha bisogno che tutti, almeno quelli che divisero e condivisero con lei quei successi, quelle risate e quei momenti felici, non dimentichino. In campo era anarchica e irriverente, Silvia Fiorini: classe, forza, velocità e fiuto della porta. Ma anche fuori dal rettangolo era la stessa: coraggio, simpatia, schiettezza, onestà. La notte di Natale compirà cinquantaquattro anni, ma non sarà un compleanno come gli altri; a luglio ha avuto un’emorragia cerebrale, alla quale è conseguito uno stato comatoso. Per tornare a casa, da sua moglie Camilla e dalla loro bambina, ancora troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per soffrire, dovrà, indispensabilmente, sottoporsi a un’importante cura riabilitativa in un centro specializzato. Per farlo, occorrono 55.000 euro. Da qualche giorno è partita una campagna di raccolta, un goal per Silvia, che nel giro di poche ore ha già raggiunto la confortante, ma ancora insufficiente, quota 5.000 euro. Ne mancano ancora 50.000, tantissimi, vero, ma che il mondo del calcio tutto, non solo quello femminile, potrebbe raccogliere e offrire con un semplice schioccar di dita. Dopo tante indimenticabili emozioni che Silvia Fiorini ha regalato al mondo dello Sport, il mondo dello Sport, ora, potrebbe e dovrebbe essere riconoscente.
PISTOIA. Competere con i grandi colossi (anche quelli musicali) è sempre più difficile. Ignoriamo il budget del Festival Blues di Pistoia, né sappiamo quanto, per l’evento artistico più rinomato della Toscana, secondo, su scala nazionale, solo a Umbria Jazz (che domenica, con il concerto di Joe Bonamassa - a Pistoia nel 1996 -, chiuderà il sipario sulla 50esima volta), il Comune, la Regione e il Ministero della Cultura stanzino. Conosciamo però – e siamo pronti a scommetterci – l’onestà della Direzione Artistica, quella della famiglia Tafuro che dal 1985 organizza e porta in città, che si dimostra puntualmente irriconoscente, una manifestazione che offre al Comune della Giostra dell’Orso, senza l’utilizzo di pesticidi e anticrittogamici, lustro internazionale. E visto che l’andamento del gradimento del pubblico si sposta a velocità supersoniche rispetto alla magnifica lentezza di qualche decennio fa, occorre fare delle riflessioni e capire, tra costi e ricavi, tra magnificenza e dazi, se questo Festival può continuare a esistere. Non ci riferiamo alla denominazione a origine controllata dell’evento - quanto fosse ancora Blues il Festival - che ha tenuto per anni ostaggio la città con e su sterili dibattiti, ma sulla scelta musicale. Non aspettiamo Blanco, né Ultimo, né tato meno i Pinguini tattici nucleari, che sempre durante i giorni del Festival hanno fatto registrare tutto esaurito in stadi e anfiteatri a suon di decine di migliaia di biglietti venduti. Il Festival Blues, il nostro Festival, si deve per forza di cose cibare di altro, senza però abbassare così tanto l’asticella e dover essere costretto a chiudere le tribune e invitare il pubblico a sedersi sulle seggioline blu disposte sulla piazza. I pezzi storici del Blues (che a Pistoia, dal 1980 a oggi, ci sono stati tutti, ma proprio tutti) sono quasi tutti morti, senza farne qui l’elenco cimiteriale e nuovi a sostituirne, al di là dell’impresa oggettivamente titanica, non ce ne sono poi così tanti. E visto e considerato che quello che verrà non lascia presagire nulla di buono, né dunque una grande e improvvisa inversione di tendenza, tanto sociale, quanto culturale, dunque economica, chi di dovere deve necessariamente ripensarla, questa manifestazione. Pena, uno svilimento tale, che consentirebbe ai suoi grandi detrattori (demagogici e attaccabrighe di mestiere), di sventolarne l’inutilità, la rimessa e rivendicarne l’inevitabile chiusura, salvo resuscitarla con sagre musicali delle quali non sentiamo, minimamente, la mancanza. Per aggirare l’ostacolo occorre studiare, così, tanto per fare un esempio chiaro a chiunque, come fa l’Atalanta calcio, che per sopperire alle grandi disponibilità finanziarie delle società più quotate del pallone e con le quali deve poi misurarsi durante il campionato, da due lustri abbondanti va a cercare, trovandoli puntualmente, ragazzini in erba che diventano campioni, o come invece ha deciso di architettare l’Empoli calcio, che i campioni prova ad allevarli, riuscendoci, talvolta, nelle proprie scuole calcio. O augurarci che qualche emiro faccia una congrua offerta ai Tafuro, obbligandoli, inesorabilmente, a vendere il marchio e lasciare che a Pistoia arrivi il gotha dei Vip e che la piazza, che fu di Carlos Santana (abbiamo citato lui perché di lui abbiamo alcune belle fotografie), diventi un salotto come il Bilionaire. Ma noi, non ci saremo.
PISTOIA. Prepariamoci al peggio, o al meglio. Perché quello che non sono riusciti a fare Covid, guerre (e Aids, ma in tempi non sospetti) - radere al suolo il pianeta -, potrebbe riuscire a Gene Gnocchi (nella foto di Sara Bonelli), l’ex comico/cantante/autore/attore che da qualche mese, dopo il battesimo politico al Franco Parenti di Milano, è calato a Pistoia, nella patria della Bugia, al teatro Bolognini, per l’esattezza, presentando il suo nuovo partito, il Movimento del Nulla, che si prefigge, senza mezzi termini, di azzerare l’umanità e dare, ai pochi virgulti sopravvissuti, l’onore di (ri)scrivere la Storia. Scherza, naturalmente, il caustico umorista parmense - ma altrettanto si è pensato quando decisero di scendere nell’agone politico Silvio Berlusconi prima e Beppe Grillo dopo -, ma lo fa alla sua maniera, lasciando intendere, soprattutto a chi ne ignori la sua vis tragicomica, che un giorno nessuno potrebbe imputargli di non averlo detto. Il teatro, però – e qui scendiamo in un campo nel quale preferiamo sguazzare, senza timori -, nonostante la sua comicità anglofona sembra metterlo a riparo da ogni disagio, non è proprio il suo terreno ideale.
di Gionni Dall'Orto
DUE VOLTE ho chiesto a Jeppe se potevo scrivere una sua biografia, e per due volte ho dovuto accettare un garbato rifiuto. Tra tutte le persone che ho conosciuto è quello che ha avuto le avventure più bizzarre che abbia mai sentito. Spesso gli capitavano durante una delle sue crisi psicotiche, come quando abbandonò l'auto sugli Appenini, salvo poi pentirsene. La ricerca dell'auto durò giorni. O come quando disertò a sorpresa un appuntamento per firmare il contratto come produttore discografico per un disco di Irene (Grandi) quando era già famosissima. Povero amico, convivere con una malattia come la depressione deve essere stato un inferno, ma non te ne sei mai lamentato. Voglio ricordarmi di te a diciotto anni; un leader, tuo malgrado. Non sei mai stato un narcisista come la maggior parte dei musicisti. Eppure, quando avevi diciotto anni, eravamo tutti stregati dalla tua bellezza, dai tuoi modi gentili e schietti e dalla tua intraprendenza. E poi la straordinaria apertura mentale, che ci hai insegnato semplicemente stando insieme: quella straordinaria capacità di ascoltare le persone senza giudicare. Quello che chiamiamo un saggio. Grazie Jeppe, ci manchi tanto.
di Massimo Baldi
MICHELE COCCHI è un grande scrittore. Questo più di ogni altra cosa bisogna che ci si imponga come segno della sua esistenza e anche del ricordo che ci tocca arredare con il suo venir meno al mondo. È un grande scrittore e lo è sempre stato. Chi scrive può infatti testimoniare come fin dagli esordi non ci sia mai stato alcunché di frivolo, hobbistico o lasciato al caso nell’impresa scrittoria di Michele. Tutto ciò che concerne lo scrivere è sempre stato preso da lui maledettamente sul serio, con un rigore che in qualche modo aveva da prendere il sopravvento, se necessario, anche sulla ricerca della bellezza e della grazia. Questo, dicevo, si riscontra già nei primissimi racconti della fine degli anni ‘90 e dei primi anni 2000, dove l’acerba vena letteraria e l’assenza di uno stile e di un indirizzo definiti non turbano l’esattezza della ricerca linguistica, la tenuta di un ritmo cadenzato con le stesse battute della vita contemplata e sentita, la fede in un dire quanto mai mondato del superfluo. Michele odiava buttare il cibo. Era un uomo che poteva scattivare un pezzo di formaggio secco per centimetri pur di salvarne un frammento e sottrarlo all’immondizia. Allo stesso modo ha agito con le parole, facendo impietosa pulizia del di più e consegnandoci, in una disgraziatamente precoce eredità, i cuori nascosti di un linguaggio acre e vivo, indifferentemente usuale e inusuale, tecnico e comune, senile e infantile. Indifferentemente vero per come doveva esserlo in quel passaggio, in quella battuta di dialogo, in quell’adagio.
SERAVEZZA (LU). Ho conosciuto Butch quando stavo a Chicago. Faceva il barbone di mestiere. Mi diceva sempre che esisteva la concorrenza anche tra barboni. La notte lo trovavo, spesso, disteso sempre nel solito posto che dormiva, o faceva le prove generali per morire. Solo anni e anni dopo sono riuscito a fargli un ritratto degno, e lui ora chissà dov'è. Ho trovato la disponibilità di esporre questa scultura in legno di platano nel duomo di Seravezza. Ovviamente al prete ho detto che si trattava un di Gesù Cristo deposto perché a loro piace troppo sentirselo dire. Ma questo è, e rimane, il ritratto del povero Butch. E ora dorme, dorme al Duomo! Ho poco altro da aggiungere, soprattutto perché quello che scriverò adesso io, dopo quello che ha scritto della sua manodopera Alessandro Gonfiantini, avrà solo la pretesa, ma perché gli voglio un bene dell’anima, di aiutarlo, una volta per tutte, a uscire dal guado e riprendere la strada. Non è la prima volta che scrivo di lui, e non sarà nemmeno l’ultima (almeno così mi auguro), vista la sua febbrile e prolifica creatività artistica. E io che pensavo che fosse solo un musicista, un gran bel musicista, Alessandro; un chitarrista eclettico, mai banale, disordinato e disordinante.
PISTOIA. Lo sapevano davvero in pochi che ieri sera, alla vigilia dell’ultima serata del Festival Blues 2022 (stasera canta Elisa, rinviata, a luglio, per covidsuoi), lì, a fianco del palco, issato in men che si dica dalla febbrile organizzazione del Blues’In, si esibissero i Fun Coll. Così come, del resto, non era minimamente immaginabile che nel giro di ventiquattrore la temperatura, da afosa e insopportabile, diventasse inspiegabilmente siderale. Certo, il Caffè Duomo, organizzatore dell’appuntamento musicale, avrebbe potuto anche pubblicizzare l’evento un po’ meno timidamente, ma resta il fatto che le note intonate dalle voci di Massimiliano Tesi e Gabriele Borchi, rispettivamente al basso e alla chitarra, supportati dalle tastiere di Mauro Mennini e la batteria di Gianluca Paolino, nel bel mezzo della serata si udivano perfettamente nel raggio di qualche centinaio di metri e visto che la movida pistoiese si concentra, da sempre, al di là del Tribunale, tutti quelli che iniziavano a popolare le vie del centro tra shottini a poco prezzo, cannoni di erba di dubbia provenienza e qualche letale pasticca, almeno per curiosità, si sarebbero potuti avvicinare ai quattro musicisti che, senza alcuna pretesa, ma con divertita e divertente professionalità, avrebbero deliziato non solo gli incarogniti astanti, ma anche molti altri. Il pretesto per andare a sentirli e vederli da vicino non mancava: dai Beatles agli AC/DC, da Pupo a Ligabue, passando dai Buggles e dai Knack, in un simpatico repertorio che meritava e meriterà, in qualsiasi circostanza, miglior attenzione.
PISTOIA. Credevo valesse la pena tornare a vederlo, Museo Pasolini. Alla prima, al Teatro Puccini, a Firenze, rimasi così impressionato, che ho ritenuto opportuno bissarne la visione (e la recensione), seppur in un’altra atmosfera, non solo longitudinale. Alla prima era inverno pieno; il teatro fiorentino era esaurito in ogni ordine di posti. Tra gli spettatori, oltre agli affezionati storici di Ascanio Celestini, artista stratosferico, militante indefesso, tanti miei colleghi e parecchie autorità politiche; di sinistra, naturalmente, quelle che con Pier Paolo Pasolini dovrebbero farci i conti una vita intera. Dovrebbero. Ieri sera, a Pistoia, alla Fortezza Santa Barbara, ancora caldo, non più torrido, ma piacevole. La metà delle seggioline blu disposte dall’Atp restano vuote; solo un paio di giornalisti e nessuno, tra politici e amministratori sconfitti (e siamo solo all’inizio: questa sinistra ne deve prendere ancora tante, di legnate, che nemmeno se lo sogna), di quelli che dovrebbero esserci. Non è cambiato nulla, dalla scenografia, minimale, scarsamente funzionale (del resto, il cantastorie Celestini, di scenografie non ha mai avuto bisogno), alla poetica potenza del testo. Lui, è decisamente più rilassato, anche se, dopo un mare di repliche, visibilmente stanco. Appena inizia a snocciolare nomi, cognomi, soprannomi, casati, giorni, mesi, anni, Frazioni, Comuni, Province, Regioni, indispensabili per la connotazione e la contestualizzazione del pensiero del Genio incomprensibile nato proprio nell’anno zero dell’Era Fascista, per poi continuare a portarci con lui, dalla finestra della sua abitazione a scorgere la fermata del 109, fino alla salita del Quadraro, le baracche del Mandrione, quelle della Pineta di Cinecittà, la stazione Termini, l’idroscalo di Ostia e quell’omicidio, facilmente e clinicamente derubricabile e derubricato a una meschina storiaccia di sesso perverso tra maniaci, malati, depravati e poveracci, illustre come le stragi prima e varie esecuzioni dopo, mi tornano alla mente e nello stomaco le stesse identiche sensazioni della prima e allora mi rilasso parecchio anch’io, intuendo, prima ancora di vedere il resto della lunghissima maratona teatrale solitaria e direttissima (proprio come piaceva a Walter Bonatti), che quello che avevo scorto, digerito magnificato e poi scritto dopo Firenze, erano esattamente le cose che l’Artista aveva voglia di lasciare in dono a spettatori e critici. E a me.
ERI COSI’, quando t’ho conosciuto, trent’anni fa, poco più, poco meno, al Camarillo, a Prato, dove si suonava e beveva molto, per fortuna. Sembravi un vecchio con il suo mare. E invece eri più giovane di me. Ma il mare, dentro, ce l’avevi eccome, altrimenti, quella voce antica, come la tua chitarra e la tua musica, da dove ti sarebbero potute uscire fuori? Ora che te ne sei andato, chissàddove, stanotte, io e tutti gli altri, che sono tanti, e lo sai, Leo Boni, bluesman, ma non solo, ti teniamo così, stretto stretto ai nostri ricordi, ai nostri sogni, alle nostre illusioni. Perché la musica a questo serve: sognare, ricordare, illudere. E tu, Leo, riuscivi perfettamente a incarnare e incarnarti nella figura del traghettatore di anime, con i capelli che ti coprivano puntualmente gli occhi, mai l’anima. Era da poco uscito il tuo terzo album da solita, The ring: l’anello. Perché qui dentro, nonostante la pandemia avesse inibito parte della tua energia (senza live non sapevi stare), avevi voluto mettere dentro tutto quello che ti apparteneva: il Blues, prima di ogni altra cosa, ma anche il jazz e perché no, lo swing, con i quali avevi imparato a convivere con la stessa disincantata irriverente energia, con la medesima ironica e onirica distruzione di luoghi comuni, non solo musicali. Mi fermo qui, Leo e scusami, ma il resto sarebbe pieno di date, posti, musicisti, collaborazioni e soprattutto retorica e a te, se non ricordo male, le cerimonie davano parecchio fastidio: questo pezzo avrebbe dovuto invece scriverlo uno di quelli con i quali hai diviso e condiviso una miriade di volte il palco, per farci rivivere, seppur con il filtro del racconto, l'alcolica adrenalina di notti infinite. Non certo io, che ho solo avuto la fortuna di ascoltarti, guardarti e applaudirti. L’autopsia ci dirà di cosa te ne sei andato, e già ci manchi, ma la musica ci ha anche già detto, e non certo oggi, che resterai con noi. Vero?
FIRENZE. Ma noi, di loro, cosa ne sappiamo? Poco, pochissimo, quasi nulla. Loro, invece, di noi, san molto, quasi tutto. E nonostante questo, continuano ad accontentarsi di briciole, piccoli ritagli di tempo, sporadiche attenzioni. Quelle che talvolta, grazie a Versiliadanza, che tra le varie attività contempla anche quella di coinvolgere il gruppo di attori di Teatro come Differenza, con il totale coinvolgimento del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze/Usl Toscana Centro, vengono concesse loro dal Teatro ufficiale, quello classico, serio, con tanto di poltroncine numerate, biglietti al foyer, riflettori sul palco, buio in sala, colonne sonore e, al termine di ogni singola rappresentazione, applausi, ma quelli veri, eh, che loro aspettano con incosciente impazienza, perché sanno, inconsapevolmente, di meritarli tutti, uno a uno. Anche stavolta, come già abbiamo avuto la fortuna con la precedente, è il Teatro Cantiere Florida di Firenze a ospitare lo spettacolo di questa Compagnia particolare (Giovanni Abbazzi, Michela Astronomi, Sona Baradaran, Lorenzo Bonifazi, Leonardo Brighella, Fabio Calonaci, Miche Ceri, Massimiliano Leone, Pierluigi Logli, Naeem Malik, Matteo Pucci, Antonella Sabatini, Lorenzo Sanesi e Loredana Stramaccia), tenuta in piedi, diretta e organizzata da uno staff sociosanitarioumano (Paolo Biribò, Francesca Sanità ed Elena Turchi, con la collaborazione di Samuele Mariotti e Andrea Maragliano) al quale, dopo aver scandito il battimano ai protagonisti, riserviamo un caloroso, sentito e doveroso ringraziamento. Lo spettacolo è CUORAMARANTO piccola cronaca della caduta e si ispira all’esistenzialismo beckettiano, riassunto in queste poche parole: Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio. E come riescono a cadere bene loro, quelli della Compagnia particolare, per poi, puntualmente, rialzarsi, a ben pochi altri è dato tale privilegio. Anzi, è proprio la loro caduta, vertiginosa, continua, inarrestabile, la loro forza, che potrebbe e dovrebbe diventare la nostra, noi ai quali la sorte ha riservato ben altri destini. Basterebbe tenerli un po’ più nella debita e umana considerazione, trasformando il loro muto, inspiegabile e inspiegato dolore nella nostra (ir)riconoscente rumorosa allegria.
PISTOIA. Chissà cosa ci facesse, stamattina, Niko Pantano, a Pistoia, in pieno centro, con la sua chitarra, a deliziare pochi, sparuti e distratti viandanti. A reclamizzare la sua musica, ovvio. Ma lui, milanese di appena venticinque anni, che ne dimostra mille, fuori, ma anche dentro, sentendolo cantare, perché è venuto a Pistoia a regalare ai pochi fortunati che hanno avuto modo di ascoltarlo le sue poesie? Dura appena ventiquattro minuti, Hobo, l'Ep che Niko Pantano vendeva, nella custodia rigida della chitarra, dove raccoglieva anche e soprattutto monete, da chi, al di là di un reale apprezzamento artistico, si sarà intenerito a vederlo, solo con la sua musica. L’ho comprato. Mi sono convinto immediatamente, a farlo, dopo aver sentito appena due brani. Del resto, costava solo 5 euro; gliel’ho dati in monete da un euro; non l’ha contate, si è fidato. Ha fatto bene e già che ero lì, avrei anche potuto essere più generoso. Sarà per un’altra volta, sarà per un altro viandante in cerca della sua strada. Lo ascolto da circa due ore, ininterrottamente; appena termina la sesta traccia (Water and wine), faccio ripartire l’apparecchio e mi gusto nuovamente, con rinnovato piacere e amplificata tristezza, I’m damned, Caresses, Talk is cheap, A long time ago e Good to be alone. Una più bella dell’altra, intense, delicate, tanto da distrarmi del tutto. Auguri, Niko, per questo 2022 e per tutto il resto.
PISTOIA. Per dovere di informazione, per oggettiva e forbita analisi musicale, ma anche per orgogliosa nostalgia che solo il popolo di Pistoia e del suo Blues può vantare, per raccontarvi del volume (Sweet Home Pistoia) presentato ieri, 8 dicembre, in anteprima al Teatro Manzoni (sarà nelle librerie dal prossimo gennaio) e che riassume quarant’anni di Festival e per non far torto a nessuno di quelli che son saliti sul palco, questo racconto dovrebbe limitarsi a snocciolare nomi, cognomi, e di molti di loro relativi strumenti ed esaurirsi, a scelta, con un epilogo sonoro che potrebbe premiare uno o più aspetti degli artisti che hanno movimentato la serata. Ne facciamo a meno, perché i presenti non hanno alcun bisogno di ricevere delucidazioni emotive e gli assenti, patirebbero oltre misura. Di questa Sweet Home Pistoia vi raccontiamo la cosa più importante: la dichiarazione, essenziale, quasi avara, soffice e apparentemente disillusa, di Giovanni Tafuro, di professione imprenditore (con la musica organizzata, allestita e realizzata ci vive e convive, è il suo pane quotidiano), certo, ma al quale, questa città, prima di questa Musica, dovrebbe essergli grata, perché senza Tafuro e la sua comitiva imprenditoriale, dopo i problemi capitati subito dopo le prime edizioni del Blues’In (così si chiamava e se lo poteva permettere), nei cuori e nella memoria di molti sarebbero rimaste poche, seppur sontuose, note e Pistoia sarebbe tornata a vivacchiare nel suo alveo privilegiato, tra massoni, satanisti e ortovivaisti, e la musica, come tante altre indispensabili distrazioni culturali, sarebbe restata appannaggio di Firenze, Prato, Pisa e Lucca. E invece, Pistoia può vantare il primato, tra una miriade di contraddizioni, di essere la città che ospita il più longevo Festival musicale italiano, con un listino/partecipanti da far venire i brividi. Il resto, il libro, il concerto, il calore del pubblico, quello che è stato, che è e che sarà, lo lasciamo poltrire nelle impenetrabili convinzioni degli esaltazionisti e in quelle degli obbiettori di professione: noi, critici per censo, prima che per professione, ci teniamo la musica, tutta e a Pistoia quella straordinaria che ci ha regalato Giovanni Tafuro.
CALENZANO (FI). I treni, quelli che vanno e vengono da Firenze a Lucca, ci passano ancora dalla stazione di Calenzano. Di giorno, soprattutto. La sera, tendono a ridursi sensibilmente, fino a scomparire, nelle ore più profonde della notte. Sarà per questo che da quando le Ferrovie dello Stato hanno dismesso la vecchia biglietteria, con annessa una lillipuziana sala d’attesa, il Comune omonimo si è preso la briga di offrire quel magico anfratto a chi volesse farne un uso strano. E così, qualcuno, ha fatto, tanto che ora, il vecchio accesso ai binari si è trasformato in un meraviglioso piccolissimo locale, dove la Stazione delle Associazioni ha costruito un vero e proprio bugigattolo culturale, dove ogni tanto, qualcuno, arriva, si cambia, fingendo di farlo in distanti camerini e offre la sua felicità. Ieri infatti, in quella straordinaria stanzetta di fortuna, il paggio medievale Emiliano Buttaroni, dopo aver inforcato gli occhiali, ha iniziato a raccontare, in poesia, parte delle sue aspettative, rubando legalmente (con il consenso degli autori, da Trilussa ad Ada Merini, fino ad arrivare nelle propaggini del Divino) qualche strofa di pagine indimenticabili, ma colpevolmente dimenticate. Al suo fianco, sedute su due sgabelli, impossibilitate nelle più elementari movenze fisiologiche, la voce, notevole, di Evelin Di Biase – per nulla intimorita dal diaframma dimezzato -, accompagnata, nel canto, ma solo saltuariamente, da Stefania Bedetti, anche lei di ‘300 vestita, ma con il violino elettrico ben saldo tra la clavicola e la mandibola.
di Marta De Sandre
SAN VITO DI CADORE (BL). Nove ottobre: data scolpita nella memoria di tutti noi. Cinquantotto anni fa, una frana di enormi proporzioni precipitò nella diga del Vajont. L’azione scellerata di chi decise di costruire un’infrastruttura di questo tipo a valle di un monte chiamato Toc (che il dialetto significa pezzo, non esattamente il nome che si darebbe a una montagna granitica) provocò duemila vittime. Il 9 ottobre 2021 un’altra frana, di modeste dimensioni, ha cambiato il profilo del monte Marcora privandolo di una delle sue guglie. Nulla di eccezionale dal punto di vista geologico se non fosse che, con la complicità di una magnifica giornata autunnale, tale distacco ha provocato una nuvola che si è depositata sull’intero paese imbiancando tutto di dolomia polverizzata, come la rappresentazione teatrale del disastro di Pompei. Attendendo che la polvere si diradi, tutti gli occhi restano fissi sulla montagna, cercando il punto esatto del distacco, cercando di valutare che danni possa aver provocato, sperando che non sia il preludio di un distacco più imponente. Le Dolomiti sono fragili: le guglie, le fessure, le pareti frastagliate che rendono le foto dei turisti così belle sono il risultato di tante frane.
LO CONOBBI un pomeriggio, ad Agliana. C’era un sacco di gente, perché tutti insieme, da piazza Antonio Gramsci, arrivammo fino a piazza Risorgimento, Quarrata, due Comuni della provincia di Pistoia. Marciammo per sette chilometri, marciammo per la pace. Ero lì non certo perché fossi convinto della pace, anzi, ma perché mi aveva invitato a farlo mio cugino, Antonio Calabrò, che qualcosa, per la pace, ha fatto davvero. Tra le tante persone, quel pomeriggio, in quella circostanza, oltre a Gino Strada, c’erano anche Padre Alex Zanotelli e Gianni Minà. Non sapevo a chi dare la precedenza per cibare, al meglio, la mia famelica curiosità. Eppoi erano tutti lì per una causa ben precisa e non potevo, né volevo approfittarne. Giunti a destinazione, mi permisi, prima che si rompessero le righe (immagine che stride con la pace, ma rende l’idea), di chiedere a Gino Strada che glielo avesse fatto fare, invece che fare il Primario a Bologna, di andarsene in culo al mondo per salvare sconosciuti. Fatti e non pugnette (pippe, in uno slang meno regionalizzato), fu la risposta che mi dette, senza nemmeno guardarmi negli occhi. Il giorno dopo, andai da una tatuatrice e mi feci scarabocchiare sul polpaccio sinistro la E che simboleggia Emergency. Gianni Minà ho avuto modo di incontrarlo ancora in altre circostanze, decisamente meno impegnative; Padre Alex Zanotelli, invece, l’ho rivisto nella Basilica di Don Bosco, a Roma: fu lui a celebrare la messa funebre di mio cugino Antonio Calabrò. Gino Strada non l’ho più incontrato. Ma quando mi spoglio per andare a letto, talvolta, sfioro con le dita delle mani il mio unico tatuaggio e penso al suo coraggio, alla sua pace.
NEMMENO il tempo di affezionarsi, che iniziano a scorrere i titoli di coda. Ma no, cazzo: è già finita! Va bene anche così, soprattutto in un evo, quello contemporaneo, che il tubo catodico secerne (Guzzanti docet) per lo più merda. Per fortuna che alla Rai, RaiTre per la precisione, non so chi, offra a Stefano Bollani e signora, Valentina Cenni, una ventina di minuti quotidiani, Via dei Matti numero 0, poco più, poco meno, incastonati all'ora di cena tra i vari telegiornali, che si rincorrono sulle cifre dei contagiati, ricoverati e morti da Covid. Incredibile a dirsi e crederci, ma quella delicatissima offerta di note e sorrisi bastano per riconciliarci con la vita, che passa attraverso la musica, la storia, la cultura e la bellezza. Stefano Bollani è, indiscutibilmente, uno dei musicisti più colti e artisticamente dotati dal Mondo e nonostante sappia di esserlo continua imperterrito a giocare, godendo e facendo godere chi ha la possibilità di ascoltarlo suonare i suoi ottantotto tasti, ma anche raccontare leggende e aneddoti attorno ai suoi maestri, che grazie al suo entusiasmo diventano fiabe per bambini. Valentina Cenni, che è sua moglie, pur non potendo vantare le stesse cifre artistiche del marito, è una donna particolarmente interessante: usa la lingua italiana con precisione, dovizia, sapienza e generosità, canta meravigliosamente e, fondamentale per l’uopo, riesce perfettamente a bucare lo schermo, grazie a una naturalezza teatrale e una bellezza decisamente genuina, che non ha mai bisogno di ricorrere ad alcun stratagemma per aver voglia, così com’è, vestita con jeans e stivali, senza nemmeno una spalla scoperta, di incontrarla e offrirle un caffè. E ogni giorno, giusto il tempo di salutare, accomodarsi sullo sgabello e solfeggiare un motivo che l’ha reso famoso, un ospite, che se ne va con la stessa naturalezza con la quale è entrato. Ci vuol poco a fare della tivvù di qualità, allora: basta affidarla a chi i numeri li ha conquistati studiando, con passione e sacrificio e non a chi li ha avuti in dote per disgustoso censo.
NON DOVREBBE mancare più molto tempo. Nel giro di breve, salvo imprevedibili e scongiurabili impennate del virus, campagna vaccinale e temperature miti dovrebbero riallontanare, stavolta ci auguriamo definitivamente, lo spettro di chiusure forzate. Dunque, riapriranno anche i teatri. Tempo e spazio per allestire cartelloni degni di essere definiti tali non ce ne sono stati. Ci sarà però il tempo per preparare al meglio i prossimi in vista dell’autunno, probabilmente. In attesa, i teatri, qualche segnale potrebbero darlo, però. Ad esempio - ne ho parlato con Matteo Brighenti, addetto stampa della Pergola, di Firenze, una delle persone più competenti, gentili, disponibili ed eleganti che gravitano nell’universo/Teatro – ogni teatro potrebbe e dovrebbe allestire, per l’ultimo sabato di aprile, lo spettacolo inesistente. Tutto a norma, beninteso: una poltrona occupata ogni tre, con tanto di maschere che misurano la temperatura agli spettatori che saranno accolti in modo contingentato. Per lo spettacolo, previsto per le ore 21, i battenti si aprirebbero alle 19,30 e gli spettatori, scelti appositamente dalle singole direzioni tra critici (debitamente accreditati), fedelissimi e gente ormai in preda a crisi scomposte di nervi, verrebbero accolti secondo direttive orarie ben precise. Alle 21 in punto, le luci calerebbero fino a spegnersi e il palco, vuoto, si illuminerebbe a giorno. Fino alle 22,30. Dopo lo scroscio di applausi, veri e non richiesti, calerebbe il sipario e gli spettatori riguadagnerebbero la strada di casa come dei bravi soldatini, abbandonando le singole poltrone dabndo la precedenza a quelli posti sulle file più distanti dal palco e più vicine all’uscita, con la preghiera, rivolta ad ognuno, di non fermarsi fuori dal teatro per scambiarsi opinioni sullo spettacolo appena rappresentato. Come succede tutte le domeniche nelle chiese, del resto.
COME SE da un anno non facessi l’amore. A me, i teatri chiusi, fanno esattamente lo stesso effetto e oggi, 22 febbraio, è giusto un anno che questo virus ha chiuso i sipari e… occluso le vie spermatiche. Non ho alcuna intenzione, né tanto meno voglia, di impiantare una querelle sulle colpe di chi dovrebbe traghettarci al di là della linea invisibile, ma tragica, del Covid 19, né mi preme perorare la causa di tutti quelli che con questo imprevedibile disastro stanno davvero rischiando la miseria e dunque la perdita della dignità, né disquisire su come mai, le chiese, siano rimaste aperte. Approfitto della decisione di tutti i teatri di illuminarsi, oggi, a lutto, per questo nefasto compleanno e sfilo, in silenzio e in lacrime, in questo mesto corteo funebre, al fianco di tutti quelli che di teatro ci vivono, pagando mutui e affitti, facendo la spesa, pagando bollette, comprando strumenti musicali per i propri figli, che come i loro genitori, vorrebbero vivere di arte. RIAPRITELI, per carità. Date la possibilità, a noi sistematici fruitori, di tornare ad accomodarci nelle platee di tutti i Teatri, quelli grandi e belli, con poltrone comode e accoglienti e quelli piccoli e brutti, dove si è costretti a seguire gli sforzi titanici dei protagonisti seduti su perigliose seggioline di legno. Voglio vedere ancora abbassarsi le luci, raccomandare a qualche stolto di spegnere il telefonino e immergermi, anima, corpo e sesso, tra i flutti del racconto che sta per cominciare e che mi porterà, a fine rappresentazione, da un’altra parte, un posto che fino all’inizio dello spettacolo ignoravo esistesse.
PISTOIA. La curva dei contagi continua a salire: bisognerebbe fermarsi, di nuovo, tutti. Non si può, per ovvi motivi economici. O meglio: non si vuole. Perché basterebbe trasformare l'industria delle guerra con quelle della pace e per ogni essere umano di buona volontà costretto a cessare la propria attività ci sarebbero i soldi per consentirgli di continuare a vivere, come se virus non ci fosse. Inutile che ridica le stese cose: le sapete, le sppiamo. Però, anche certe occasioni, anche apparentemente nefaste, andrebbero sfruttate. Tipo come fanno Mery Gianassi e Alberto Vasco, titolari, eroici, del Magik Ozne, a Pistoia, che proprio stamani, domenica 8 novembre, hanno scoperto che sul loro locale, in via dell'Acqua, dalle 10,30 alle 12,15 risplende il sole. Non lo sapevano, perché a quell'ora, lì, non c'erano mai stati. Stamattina, dovevano, perché a suonare nel loro meraviglioso bugigattolo hanno assoldato Alessandro Gonfiantini e Roberto Uggiosi, chitarre e voci di prestigio, non solo in città, che abitualmente, in tempi non sospetti, insomma, le loro performance artistiche le distribuiscono la notte. Ora, dopo le 18, si può fare poco o nulla. Ma fino alle 18, con tutte le dovute precauzioni (chi non le usa è semplicemente sciocco), ci si può muovere e allora, quello che succedeva puntualmente dalle 22,30 in poi, si anticipa all'ora di pranzo e il risultato è praticamente lo stesso. Vale per la musica, per il teatro, per il cinema, vale per fare l'amore, vale per tutte le cose belle che possono succedere e che in questo stranissimo e delicato e inimmaginabile momento dobbiamo fare in modo che continuino ad accadere.
LA TENTAZIONE mi spingerebbe a raccontarvi il senso di totale disgusto che mi ha pervaso dalla tristissima notizia della morte di Gigi Proietti all’immediata ipocrita, falsa e indignante consacrazione tributatagli dal mondo dello spettacolo. Peccato che l’abbiano fatto morire consegnandolo alle generazioni più verdi con il ricordo del commissario Rocca; ma c’è poco da meravigliarsi. L’erede naturale al trittico Gassman-Manfredi-Sordi era stato da tempo messo in un angolo, perché a doverci far ridere avrebbero dovuto pensarci quei tristissimi figuri che ingolfano i palcoscenici televisivi (a teatro, per fortuna, non li fanno entrare). Ma mi corre invece l’obbligo di dirvi un paio di cose sulla nuova ondata pandemica. Premesso che detesto (termine eufemistico, ma dire e scrivere che mi stiano sul cazzo è volgare) i negazionisti, ma dalla scorsa metà di marzo, un paese civile avrebbe dovuto fare queste cose:
Il resto, dai banchi con le rotelle alle lacrime dei coccodrilli, son solo chiacchiere.
PER DUE, tre volte, si sono accontentati di tirarlo sull’asfalto. Poi, stanchi e annoiati del rumore sordo e dai modesti effetti vandalici prodotti dalla ricaduta a terra, hanno pensato bene di alzare i decibel del suono e dell’emozione, gettando l’enorme masso (nella foto) sui cassonetti interrati da poco installati in piazza del Duomo, a Pistoia. A quel punto mi sono sentito in dovere, da cittadino, da padre, di intervenire, richiamandoli all’ordine. Pensate che sia una cosa giusta? ho detto al branco di quattro, cinque mocciosi (tutti minorenni, ci potrei scommettere) artefici dell'innocente e goliardico teppismo. Ci stiamo allenando per il lancio del peso, ha risposto uno della comitiva. Se continui a fare lo spiritoso chiamo la Polizia e ti faccio passare un guaio, nonostante la tua giovane età, ho tentato di replicare cercando di fare leva sulla paura di contravvenire alla giustizia. Complimenti per i pantaloni, ha replicato il giovanotto, perfettamente e letteralmente noncurante delle mie minacce. Un attimo di silenzio e poi, un altro del branco, ha sentenziato, forse condizionato dagli orecchini che porto ai lobi o chissà, dal colore audace dei miei pantaloni, chissà quanti cazzi ha preso oggi
di Luigi Calabrò
ROMA. La fisica quantistica ci insegna che, se non c'è nessuno che guarda, la realtà non esiste. Quindi la natura, per esistere, ha bisogno dell'uomo che la guarda. In questi mesi il tempo si è azzerato, abbiamo perso il controllo della nostra vita e siamo diventati un tutt'uno con l'umanità che ci ha preceduto, bloccati in un frame a porci domande che avevamo accantonato. Noi che temevamo i virus nel computer ce li siamo ritrovati in gola e nel naso. Intanto abbiamo capito che non è vero che il tifoso va allo stadio per scaricare le frustrazioni, come dicono gli psicologi pop, ma è l'attesa della partita che carica il tifoso a molla. Poi abbiamo capito che gli amici non sono solo quelli con cui spararsi uno shottino, che la musica non è solo un pretesto per ballare, che la vita è troppo preziosa per spalmarla in un centro commerciale, che se pretendo un dentista competente, pretendo soprattutto un politico competente e che i soldi si fanno lavorando. Poi, potremmo sperare che i critici musicali facciano il loro mestiere studiando musica senza osannare l'ospite pagante (quando uscì Bohemian Rapsody dissero che era anacronistica e kitsch). Potremmo sperare di resettare tutto e capire che non basta urlare per essere un cantante e non basta parlare a macchinetta per essere un attore.
PISTOIA. Il primo è stato Andrea Massai; l’ultimo, Bruno Tarasconi. Nel mezzo, pochi giorni dopo l’inizio di una quarantena tanto inimmaginabile quanto stordente e fino a oggi, 4 maggio, giorno d’inizio della cosiddetta Fase 2, che vorrà dire rinascita, sulla mia rivista ho voluto e potuto ospitare, al posto di recensioni teatrali, musicali, cinematografiche, letterarie, pittoriche, di società, interrotte per cause di forza maggiori, riflessioni. E hanno scritto tante persone, molte di più di quello che avrei potuto immaginare. E le ringrazio tutte, una a una. Perché ognuno ha portato in comunione quello che aveva dentro e nonostante il periodo avrebbe potuto giustificare approssimativi allineamenti di tutto e di tutti, nessuna considerazione è stata uguale a un’altra. Hanno dominato la paura, la speranza, la rabbia: comprensibile; qualcuno ha preferito aggirare l’ostacolo e raccontare altro. C’è stato chi ha sognato; chi ha scritto di non riuscire più a farlo. Tutti insieme, però, dall’inizio di questo terrificante periodo e fino a oggi (il bello e il meglio devono ancora arrivare: dipende da noi, dalla nostra coscienza e da una poderosa dose di fortuna) si sono dati appuntamento su Meglio Meno e si sono raccontati. È stato un modo per come sentirci meno soli; è stato un modo per come esserlo davvero, meno soli. A me, cuoco/ideatore di questa iniziativa, ricevere sulla mail i vostri scritti e tradurli in pubblicazioni ha fatto veramente compagnia, mi ha fatto sentire importante e utile alla causa della prudenza.
di Tindaro Granata (e Cirano Testai)
MILANO. Semmai foste lettori occasionali e vi foste imbattuti in questo articolo grazie all’incomprensibile logica di un algoritmo virtuale, vi chiedo la gentilezza di leggere le parole che seguono, non per piacer mio che sono uno dei tanti attori disgraziati e dimenticati dai più (eh sì, molti credono che la Cultura, qualora fosse cultura quella che producono i teatranti, non sia un bene di prima necessità e quindi noi teatranti: dimenticabili), ma per amor tuo, che immagino essere una persona che si nutre di storie, lettura, emozioni e ragionamenti. Col mio lavoro di attore e drammaturgo nel corso degli anni ho incontrato tante persone che porto nel mio cuore, e anche se sembra impossibile che ci riesca, li ricordo uno per uno; ognuno di loro è la testimonianza di una vita. È una vita piena di tante vite. All’inizio di questa quarantena scrissi, come di mia consuetudine, la lettera mensile ai miei amici/amanti del Teatro (li chiamo così, un po’ perché sono amici veri, un po’ perché mi piace avere amanti) e Cirano Testai, un toscanaccio di nascita e di cuore, mi rispose così:
Carissimo Tindaro,
Grazie per la tua mail, con i ricordi di un po' del nostro grande cinema e del nostro grande teatro, i tuoi pensieri e le tue emozioni.
Leggi tutto: Lettera al Ministro Franceschini (scritta nel 1944)
di Simone Perinelli
CALCATA (VT). Mi sono ritrovato in strada con mascherina e guanti durante i primi giorni di pandemia e l'impressione forte che ho avuto è stata quella di trovarmi catapultato in un romanzo di Philip Dick. Nonostante io abbia alle spalle anni e anni di letture di fantascienza a sfondo apocalittico e post atomico, non avrei mai immaginato di potermi ritrovare a destreggiarmi in un mondo attaccato da un virus. Le prime cose che ho fatto, appena iniziate le prime restrizioni, sono state fare la spesa, riorganizzare le giornate a venire e ordinare online libri e una cassa di vino rosso. Man mano prendevo coscienza dell'entità della faccenda e dopo un po' è arrivato il che ne sarà di noi, del teatro. Ma non ce l'ho fatta a preoccuparmi troppo per questo aspetto. I teatri chiuderanno per un bel pezzo, bene! Avevo proprio bisogno di uno stop. Arrampicato su un sistema teatrale troppo fragile, traballante, mal ristrutturato, mi sono detto - che cada pure e dalle ceneri possa nascere qualcosa di meglio - Ecco, questa pandemia ci sta offrendo l'occasione di riflettere su come possiamo fare meglio quello che facevamo prima. Di rilanciare, approfittare del lock down per staccarci dai ritmi produttivi e di distribuzione che siamo costretti a tenere per mantenerci in vita, e magari fare una riflessione sugli aspetti artistici e riportarli in primo piano.
di Alex Zanotelli
NAPOLI. Che senso avranno le nostre Pasque e questo cantare ancora salmi, se ci troviamo conniventi con gli stessi Faraoni? O Chiese! Così scrive il monaco poeta Davide Turoldo nel suo Libro dei Salmi che uso per la mia preghiera quotidiana. Domanda esplosiva questa di Turoldo per le nostre Pasque, ma specialmente per la Pasqua di quest’anno che non possiamo celebrare solennemente nelle nostre Chiese per l’emergenza coronavirus. È un momento importante per riflettere su cosa significa celebrare la Pasqua, soprattutto per noi chiese d’Occidente. Come possiamo celebrare Pasqua, festa di liberazione dalla schiavitù, quando noi viviamo dentro un sistema economico-finanziario che permette a pochi di avere quasi tutto sulla pelle di miliardi di impoveriti con milioni di morti di fame all’anno? I recenti dati di OXFAM sono impietosi: duemila miliardari hanno tanto quanto quattro miliardi e mezzo della popolazione mondiale. Questo Sistema permette che il 10% della popolazione mondiale consumi da solo il 90% dei beni prodotti dal mercato, creando la gravissima crisi ambientale che già oggi uccide otto milioni di persone all’anno. E perché siamo così terrorizzati dal coronavirus, mentre questo Sistema ne ammazza molte di più ogni anno senza che questo ci disturbi? La crisi ecologica costituisce una minaccia alla stessa sopravvivenza di Homo Sapiens, eppure i nostri governi non riescono a prendere decisioni serie per passare dal carbone e petrolio al solare. Non ci dovrebbe spaventare tutto questo scenario più del Covid-19?
di Lorenzo Gattoni
MILANO. Qualcuno si chiedeva dove fosse Wuhan e che cosa fosse l’Hubei, come se ancora potesse esistere al mondo una qualche regione remota e sconosciuta. La globalizzazione – lo abbiamo imparato in questi anni – ha ridotto le distanze; adesso abbiamo imparato che ha ridotto anche i tempi: Wuhan si trova in Lombardia, vicino a Milano, è qui il luogo di irradiazione di un contagio che si è via via esteso a tutta l’Europa, e da qui al mondo intero. Dapprima abbiamo reagito con un senso di incredulità: un virus nocivo e sconosciuto e altamente contagioso? Un senso di irrealtà comunque sufficiente a farci correre ai supermercati per fare incetta di pasta, carta igienica, scatolame e acqua, riflesso, evidente, di una condizione ereditata dalla guerra. Poi vengono chiuse le scuole, il contagio si estende da Codogno a Piacenza e in Emilia, a Bergamo, a Brescia, al Veneto, ci sono persone che muoiono, e allora subentra l’incertezza, ci si chiede se è tutto vero oppure se si tratta di esagerazioni, poi ci dicono che dobbiamo stare a casa e, comunque riluttanti, arriva l’ansia, la paura. Anche perché i morti aumentano, e i contagiati pure. Direi che tre sono state le fasi che a Milano si sono attraversate in questo mese: inizialmente un senso di incredulità e surrealtà, la città semideserta è uno spettacolo raro, poi è subentrata l’incertezza legata alla percezione, per quanto indeterminata, di una preoccupazione reale, per arrivare infine a un senso di paura vera e di ansia e allarme.
di Stefania Sinisi
CIAO Luigi, come stai? Non riesco a trovare nessuna parola per descrivere lo sconforto e la devastazione che assale il mio animo in questi giorni, in cui il mondo e in particolare il nostro sembra essere stato sconvolto da una nube nera di vuoto. Credo che quello che accade realmente non ce lo possiamo neanche immaginare nelle corsie, negli ospedali di tutta Italia, dove la situazione sembra aggravarsi ogni giorno di più; siamo tutti spaventati e increduli, ci guardiamo con indifferenza e diffidenza, non sappiamo neanche noi quali pensieri sia giusto far scorrere dentro di noi: c’è chi si comporta con eccesso, chi con non curanza. Alcuni sembrano in vacanza, altri usciti da un film del terrore fantascientifico, e poi ci sono gli operatori sanitari, eroici, costretti a stare in prima linea ma anch’essi umanamente spaventati riflettono la paura. Devono sostenerci tutti, ma pensare anche a tornare a casa sani e salvi per proteggere loro stessi e non mettere a rischio le loro famiglie; è a loro che vanno i miei pensieri più sentiti, perché io non so se riuscirei al loro posto a mantenere la loro dignità; non so proprio con quale forza e coraggio possano trovare la semplicità di svolgere il loro dovere.
NON OCCORREVA certo il propagarsi di questo coronavirus per scoprire quanta paura, ognuno di noi, avesse di morire. Sarebbe opportuno, doveroso, una volta passata ‘sta nuttata, che ognuno di noi, che abbiamo tremato all’idea di essere contagiati, fosse mosso dalla stessa intransigente, dignitosa, umana e ragionevole voglia di vivere. Perché una volta sconfitto questo microbo, quelli che resteranno non resteranno in eterno, ma continueranno a morire; per fortuna, è il caso di aggiungere: di vecchiaia, nella migliore e più auguranti delle cose, ma, ahinoi, di tutta una serie di patologie che sono il frutto del nostro attuale scriteriato vivere, noncuranti di nulla, come se la cosa non ci riguardasse. Non voglio sorbirvi lezioni eque e solidali (non me loposso permettere e anche se potessi, ne farei volentieri a meno) per come morire sani: voglio ricordarvi di vivere, e suggerirvi come ammalarvi: di vita, passioni, giustizia, amore, sesso, rabbia, sorrisi, pianti, tenerezze, intransigenze, ricordi, progetti, senza mai perdere di vista, neanche per un solo istante, la civiltà che ci ha concesso il nostro turno e soprattutto il rispetto, per voi stessi e per gli altri, che questa che ci è stata data è l’unica nostra opportunità, qualsiasi sia il vostro credo, che una volta morti, ve lo garantisco, somiglierà maledettamente il mio.
di Francesca Infante
NON CI RENDIAMO conto di quanto abbiamo bisogno di essere inseriti nella società finché non ci tolgono i rapporti umani. E come tutte le cose che non puoi avere, ti mancano e ne senti un bisogno costante. È entrato in vigore, stanotte, un decreto che riporta l'Italia ad uno stato assimilabile a quello del 1942, una quarantena forzata, che limita ogni rapporto con il mondo esterno e, soprattutto, con le persone. E se prendete in mano un po' di pazienza e lo leggete, quello che è stato pubblicato sul Gazzettino Ufficiale, riuscirete a decifrare che ogni spostamento sarà monitorato, sarà applicato quello che in realtà è un coprifuoco, per bar e ristoranti, che obbliga la chiusura alle 18. Non sarà possibile lasciare il proprio comune di residenza, se non, ad esempio, per questioni lavorative, che dovranno essere certificate per iscritto dal proprio datore di lavoro, o sanitarie e molte altre accortezze, che nostro malgrado dobbiamo seguire per evitare la diffusione spropositata di questo virus, che ancora ci appare ignoto.
È UN AFFARE serio, questo nuovo virus, clandestino ma regale, che richiede calma, soprattutto, ma principalmente, professionalità e organizzazione, elementi, questi ultimi, che sono strettamente correlati tra loro: il primo, include il secondo, ma senza il secondo, il primo non serve praticamente a nulla. Iniziano a scarseggiare i tamponi, quelli che stabiliscono, non subito, ma a distanza di dodici ore (devono essere refertati da Roma; facciamoli refertare nei capoluoghi di regione, allora) se il paziente ha contratto il famigerato Covid 19. Bene, reperiamone immediatamente dei nuovi. Se dovessero scarseggiare, costruiamoli. Costano troppo? Facciamo la conta del superfluo: i soldati in missione di pace sparsi per il Mondo, ad esempio e tutte le alchimie strategiche onde evitare un attacco alieno (gli F35 sono la prima cosa che ci viene in mente, soprattutto pensando a Einstein, quando sentenziò di non sapere chi avrebbe vinto la terza guerra mondiale, ma di essere sicuro che la quarta la si sarebbe combattuta con le fionde).
SI PROSPETTANO tempi lunghi e soprattutto incerti, specie se, come si vocifera in più di un corridoio politicamente scorrettissimo, chi ha innescato questo virus regale non si decida a tirar fuori, quanto prima, anche il vaccino. Ma non è di questa guerra batteriologica che vogliamo parlarvi, anche perché non saremmo affatto attendibili, viste le farneticanti premesse. Ma come disse Aldo Moro, in una delle sue tante profezie purtroppo avveratesi: bisogna vivere il tempo che ci è stato dato, con tutte le sue difficoltà. Con cinema e teatri chiusi fino al 3 aprile (a patto che la situazione vada normalizzandosi, altrimenti…) e, a cascata, la serrata più o meno indotta di ogni altro luogo di aggregamento umano inferiore ai famosi cento centimetri di distanza di sicurezza (pensate ai ristoranti e ai camerieri che, nelle vicinanze del cliente, onde evitare contagi, lanciano le pietanze ordinate), la gente, piano piano, anzi, veloce veloce, si rintanerà nelle proprie abitazioni, che trasuderanno, preventivamente, di ogni genere alimentare e lì aspetterà il cessate il fuoco della paura.
HANNO AVUTO improvvisamente paura e, onde evitare spiacevoli conseguenze, soprattutto elettorali, hanno optato per la serrata, totale. In una sola settimana questo coronavirus è stato, una decina di volte, una pandemia derubricata a influenza e viceversa. E da domani, Scuole e Università. Strano, però, perché fino a oggi, all’ora di pranzo, se non abbiamo capito male, erano giovani e giovanissimi quelli meno a rischio e le persone di una certa età, i vecchi, le più esposte. E invece. Domani, naturalmente, chiuderanno a catena, fino al 15 marzo, per logica conseguenza, i cinema, i teatri e tutte quelle strutture, specialmente indoor, dove è letteralmente impossibile garantire i famosi due metri di distanza di sicurezza tra una persona e l’altra. Si svuoteranno i ristoranti e le discoteche, mentre nei supermercati, centri di distribuzione vitale, i clienti arriveranno con le mascherine e si terranno, tutti, a debita distanza dal prossimo, anche se trattasi di persona conosciuta e amata. E desiderata. In giro, a passeggio, ci saranno molte meno persone e così, almeno fino a domenica 15 marzo, salvo un tragico impennarsi dei contagi, che danneggerebbe non solo gli incauti, ma anche i timorati da dio, il nostro paese, sempre più piccolo, non solo la p iniziale, si scoprirebbe ostaggio di prove tecniche di apocalisse. Non voglio parlarvi di chi tiene le briglia del paese; sarebbe come sparare sulla croce rossa, ma dei risvolti sociali di questa presunta pandemia. La gente, coatta tra le mura domestiche, metterà a serio repentaglio la vista rimbalzando, sui propri telefonini, pc, tablet e quant’altro, da un sito sanitario all’altro, con l’augurio di poter dare per primo, nella ristretta fascia personale dei contatti, la notizia della fine del mondo o dell’improvvisa scoperta del vaccino. Vi consigliamo, per questa inaspettata vigilia forzosa, di leggervi dei bei libri, ascoltare della buona musica e guardarvi dei bei film. Insomma: approfittatene, perché potrebbe non essere una disgrazia. E vi consigliamo, soprattutto, di scannarvi a fare sesso, come se non ci fosse un domani. Anche perché, è facile davvero, che domani non ci sia.
SIAMO costantemente minacciati da ogni forma di virus, contagio, apocalissi alle porte, sbarchi inconsueti, misteriosi avvistamenti, rialzo delle temperature, abbassamento delle borse, guerre incrociate in ogni angolo del mondo. Per fortuna, però, sappiamo tutto prestissimo, alcune volte addirittura subito. Nell’era del web, le notizie sono fortunatamente presto vecchie. Questa, però, che a noi pare oltremodo rilevante in termini di democrazia diretta e rappresentativa, almeno per quel che riguarda il nostro piccolo e povero paese di calciofili e sanremisti, non sta godendo della eco che merita. Con decreto del presidente della Repubblica del 28 gennaio 2020 è stato indetto, per il giorno domenica 29 marzo, il referendum popolare, ai sensi dell’art. 138, secondo comma, della Costituzione, per l’approvazione del testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal parlamento in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna camera e pubblicato nella gazzetta ufficiale della repubblica Italiana n. 240 del 12 ottobre 2019. Si tratta del quarto referendum della storia della Repubblica italiana e vista la portata sarebbe opportuno che noi tutti se ne sapesse di più e che l’informazione facesse un po’ meglio il proprio dovere.
di Raffaele Ferro
NEL DIVERTENTISSIMO mini romanzo Arte, di Yasmina Reza (autrice de Il Dio del Massacro, tradotto nel bellissimo film di Roman Polanski, Carnage) tre amici di medio alta borghesia amanti di arte si trovano a discutere, e poi a litigare, sulla questione legata all'acquisto da parte di uno di loro di un quadro totalmente bianco. Ovviamente il prezzo molto alto pagato per questa opera d’arte fa da motore a tutta la questione, all'ironia e, d’altra parte, alla perdita delle inibizioni e al rilascio quasi brutale e comicamente caustico di emozioni represse e, infine, alla rivelazione catartica che l’arte contemporanea, se non è un gioco per gente immatura, è un vero e proprio bluff. Retro front di chi scrive a parte, ossia la riflessione che quello che chiamiamo bluff meglio si descrive in Jean Baudrillard come Il Complotto dell’Arte, prendiamo le mosse per dire la nostra sulla decisione di discutere su una frase estratta dall'articolo comparso su una rivista on line pistoiese lo scorso 19 dicembre: Trasferire il patrimonio di Marino Marini a Firenze, significa decretare la morte di un’attività culturale cittadina diventata evanescente, più proiettata a promuovere gli eventi che a valorizzare gli istituti culturali pistoiesi attorno ai quali costruire un progetto.
I COMPLIMENTI li rivolgiamo a tutti, naturalmente, anche quelli dei quali non abbiamo avuto il piacere di vederne le opere per le quali sono stati premiati, a cominciare da Maria Paiato (protagonista di Un nemico del popolo), interprete notevolissima, fino ad arrivare a Marina Occhionero (lo avevamo sentenziato, lo scorso anno), under 35 di sicuro futuro e senza dimenticare tutti gli altri, riservandoci un sorriso particolare per Antonio Latella e il suo Aminta e Davide Enia e il suo Abisso. Ma di questo Ubu 2019, giunto alla sua 42esima edizione e svoltosi, per la festa dei premiati, ieri, al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, ci preme sottolineare il Premio Speciale - così motivato: Per l'intenso lavoro di traduzione, allestimento e promozione della nuova drammaturgia internazionale - assegnato a Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi Angelo Savelli. Una soddisfazione quasi orgiastica, nella quale ci tuffiamo a capofitto dividendo e condividendo con tutti - indistintamente tutti, senza fare nemmeno un nome - quelli che lavorano al Teatro Rifredi il piacere di questo ambito e prestigioso riconoscimento, che premia, senza se e senza ma, il coraggio da parte della Direzione artistica di voler trasportare in Italia autori e testi che altrimenti, nonostante le affermazioni ricevute in casa, avrebbero forse stentato a farsi applaudire anche dal pubblico nostrano. Come per tutti quegli attori – e anche qui non faremo un nome - che si sono lasciati ammaliare dalle visioni del regista e hanno creduto nella sua ricca ricerca, sposando a piene mani progetti e spettacoli. È successo con le opere del catalano Josep Maria Mirò, con quelle del franco-uruguaiano Sergio Blanco e anche con il francese Rémi De Vos, tradotte e portare in scena dal regista Angelo Savelli e che hanno riscosso, proprio al Teatro di Rifredi, i loro giusti tributi.
ERA GIA’ fastidioso prima, quando in studio, a condurlo, c’era Milana Gabanelli, giornalista preparata, sì, puntuale, informata, capace, ma con un sex appeal praticamente nullo; e poi, sempre vestita! Ma da quando la terza rete della Rai, davanti alle telecamere fisse in studio, ha piazzato Sigfrido Ranucci, con quella faccia e con quel nome, poi, altro bellimbusto che non fa ridere nessuno senza tra l’altro sbagliare mai un congiuntivo, Report è diventato oltre ogni ragionevole comprensione noioso, irritante, letale. Basta, ora basta: chiudetelo, almeno sotto queste festività natalizie e poi, visto che senza quelle inchieste faziose, capziose, demagogiche, saccenti, supponenti, che vorrebbero denunciare il dilagante malcostume parecchio italiano e istigarci se non alla ribellione, almeno a una sana e indispensabile presa di coscienza, si sta decisamente meglio, oscuratelo per sempre; tutti, ma proprio tutti, dopo poche settimane, non ricorderemo nemmeno che andava in onda.
PISTOIA. Aria di festa, seppur orfana del padrone di casa e di ogni suo delegato, ieri a Pistoia nella Sala Maggiore del Palazzo Comunale, alla consegna dei premi nazionali per la cultura della legalità Antonino Caponnetto; e non sarebbe potuto essere altrimenti. Sorrideva Sonia Alfano, una combattente di vecchia matrice, che ha ereditato da suo padre giornalista, morto ammazzato nel 1993 dalla Mafia, il valore della verità; così come era visibilmente felice Ilaria Cucchi la sorella di Stefano (inutile che vi ricordi chi siano: lo sanno tutti), morto ammazzato nel 2009 da alcuni Carabinieri che non avevano chiaro il ruolo e la forza della divisa che indossavano: è stata la sua tenacia a infrangere il muro omertoso che avrebbe voluto coprire l’infedeltà di alcuni agenti; felicissimo, senza mezzi termini, Fabio Anselmo, l’avvocato del caso Cucchi e di altri sui quali è opportuno fare quanto prima chiarezza, che si è preso così a cuore le indagini sulla morte di Stefano tanto da diventare, nel corso dei dibattimenti, il compagno della vita di Ilaria. C’erano anche altri due premiati, ieri, in Sala Maggiore, ma loro non sorridevano; loro, forse, non sorrideranno più. Si tratta di Riccardo Casamassima e sua moglie Maria Rosati, Carabinieri, con C maiuscola, che non hanno saputo e soprattutto voluto tacere su quello che hanno visto nella Caserma di Roma una sera di ottobre di dieci anni fa. In un Paese normale, la loro denuncia si sarebbe ascritta al semplice ed elementare dovere civile, prima che giuridico e militare e probabilmente, la loro rettitudine, avrebbe avuto ben altro riconoscimento. E invece, da quando hanno denunciato alcuni dei loro colleghi, la loro vita si è trasformata in un Inferno, con la I maiuscola. Perché delle targhe di onestà, coraggio, rettitudine di cui vanno facendo incetta ovunque, Riccardo e Maria ne avrebbero fatto tanto volentieri a meno.
PORRETTA (BO). L’inverno non ha ancora iniziato a sferzare i suoi colpi più bassi che a Porretta, nel bel mezzo dell’Appennino che congiunge, faticosamente, Bologna a Pistoia, o il contrario, se preferite, Graziano Uliani, direttore artistico, ma anche inventore, nel senso letterale del termine, del Porretta Soul Festival, ha già piazzato il suo colpo da maestro o la ricetta dell’immortalità per la 33esima edizione che si consumerà, come sempre, al Parco Rufus Thomas, dal 23 al 26 luglio 2020: Bobby Rush. Che non è un musicista, ma un vero e proprio santone della black music, che dopo aver spento le sue ottantasei candeline, aver ripensato alle 46 nomination, toccato i 12 premi consegnatigli dalla Blues Foundation, si presenterà, per la terza volta, sul palco black più prestigioso del mondo. Oltre all’inimitabile decano, l’organizzazione artistica della manifestazione si è già assicurata, per l’ultimo lungo fine settimana del luglio prossimo, la conferma di Leo Nocentelli, fondatore dei The Meters, il ritorno della meravigliosa voce di lady Chick Rodgers e quello di Eddie Harrison, leader degli Short Cuts, che torna a Porretta trentadue anni dopo esserci stato, per la prima volta, in quel lontano 1988, alla prima edizione del Porretta Soul Festival, quando qualcuno, a Graziano Uliani, non solo a Porretta, dava del matto!
NON SIAMO soliti presentare gli eventi: l’ufficio stampa del Pordenone Blues Festival straripa di gentilezza, però, e nonostante nessuno di noi potrà assistere ad alcuno degli eventi in cartellone di questa 28esima edizione, ve ne raccomandiamo comunque la presenza. Si parte lunedì prossimo, 15 luglio, con il battesimo (gratuito) dell’evento, in piazza XX Settembre, con il concerto dei The Stars from the Commitments. Il giorno successivo, martedì 16, è subito sera, di quelle particolarmente bollenti, con uno dei chitarristi più famosi al mondo, la sei corde dei Genesis che furono (forse è il caso di citarli, gli altri: Mike Rutheford al basso, Tony Banks alle tastiere e Phil Collins alla batteria), Steve Hackett, in tournée a distanza, lunga 46 anni, del loro album più venduto, Selling England by the pound, l’ultimo con la divinità Peter Gabriel alla guida della formazione, una delle registrazioni musicali più politicizzate.
DI FILOSOFIA, ne sa più mia figlia, che fa la terzo liceo, di lei; torni la prossima volta. Me lo disse, raddoppiando tutte le consonante semplici, come fanno tutti i sardi, anche quelli colti, come lo era lui, con tutto il garbo possibile e immaginabile e nonostante fossi l’unico, tra gli studenti del corso di Storia delle dottrine politiche dell’anno accademico 1983-84, che al termine delle sue lezioni, per nulla sazio del suo incommensurabile sapere e letteralmente stregato dal fascino con il quale lo metteva a disposizione, continuassi a cibarmi della sua smisurata conoscenza obbligandolo a prendere un caffè in mia compagnia al bar posto nel seminterrato di via Laura, a Firenze, non mi fece il minimo sconto. Il mio esame, il mio primo esame di Scienze Politiche, fu un vero e proprio disastro, che culminò con quando farneticai che l’uomo, per Hegel, fosse il centro propulsore e indispensabile della vita. Ad Antonio Zanfarino, al professore Antonio Zanfarino, udita l'ingiustificabile castroneria, venne probabilmente l’orticaria; strinse gli occhi, come faceva quando al suono della campanella che segnava la fine delle sue lezioni la maggioranza degli studenti abbandonava cialtronescamente l’aula, e mi invitò, come scritto all’inizio, a presentarmi ad un’altra sessione. Non aggiungo altro; a piangere la sua morte naturale (era nato a Sassari, nel 1931), avvenuta in questi giorni, ci sono state e ci saranno penne molto più prestigiose della mia e parecchie autorità storiche, filosofiche e politiche. Premeva a me, ricordarlo. E ringraziarlo.
IL FESTIVAL blues di Pistoia si avvia al mezzo secolo di vita (a patto che smettiate di rompere i coglioni); quello Beat di Empoli sta consumando il suo quarto appuntamento. In piazza del Duomo, a Pistoia, eccezion fatta che per Eric Clapton e Bruce Springsteen (Slowhand è sempre stato esoso; per il Boss siamo involontariamente responsabili) sono passati, indistintamente, tutti gli artisti che in un modo o in un altro hanno fatto i conti con il Blues. Dal parco di Serravalle di Empoli (che potrebbe ospitare un concerto di Vasco Rossi, con tanto di campeggio), per longeva che potrà essere la manifestazione, non ne transiterà nemmeno un microcosmo. Dietro i due eventi ci sono le stesse persone: Giovanni Tafuro e la sua indomita dinastia. Con una differenza sostanziale e al tempo stesso florida per il Comune della provincia di Firenze e lugubre per la città delle piante: a Empoli, a Tafuro, fanno ponti d’oro; a Pistoia, d’argilla, nell’augurio che sia uno di quelli progettati da Morandi. Prudenza. Perché se Pistoia dovesse perdere il suo appuntamento cosmico con l’arte e dovendo aspettare all’incirca un secolo per rivederla, casomai stavolta con merito e a pieno titolo, nominata capitale della Cultura, questa città si ridurrebbe, come qualcuno si augura, a perfetta macchina di sola distribuzione alimentare. Non siamo vegetariani, men che mai vegani; ma ci si sfama anche con una fetta di pane e un pomodoro strusciato sopra. Per saziare lo spirito, invece, ci vuol ben altro e il Festival Blues, per l'appetito di Pistoia, è un ingrediente indispensabile!
IL PONTE Morandi è dei genovesi, non di questo paese che cade a pezzi, sbriciolando su se stesso. Per questo, la Lega Calcio, in fibrillazione per l'imminente inizio del Campionato, ha optato di rimandare, a data da destinarsi, solo gli incontri calcistici delle due formazioni colpite geograficamente dalla sciagura, quelle della Lanterna, Sampdoria e Genoa (rispettivamente contro Fiorentina e Milan). Sugli altri otto campi, invece, si giocherà a calcio, con un contorno di tifoserie che, facile prevedere, riserveranno ai morti, agli sfollati e agli abbandonati liguri striscioni strappacuore, con tanto di applausi scroscianti che rimbomberanno nelle coscienze televisive al termine dei vari minuti di silenzio che si osserveranno prima del fischio di inzio delle varie partite. Peccato, peccato davvero che questo incidente sia capitato a Genova; la Serie A calcistica, infatti, da Nord a Sud, si ferma a Napoli: se fosse crollato un ponte in Calabria, in Sicilia, o in Puglia, si sarebbero versate le stesse lacrime vere e di coccodrillo, ma almeno il Campionato sarebbe inziato regolarmente!
UNA PIZZA vegetariana, senza sale e una birra media, chiara, vero? Ci ha accolto così, alcuni giorni fa, Jacopo, ventuno anni, uno dei camerieri di un ristorante-pizzeria di Castiglioncello, una delle tante lingue pregiate di mare della provincia di Livorno. E c’è bisogno di scriverlo? Sì, perché nonostante chi scrive soffra terribilmente di gigiocentrismo, sono altrettanto consapevole di essere, salvo qualche affetto inestimabile (uno, in realtà, mia figlia), soltanto un’umana variante accidentale, ricchissima di sensibilità, certo, ma, salvo l’abbigliamento, profondamente anonima. Anche Jacopo, probabilmente, lo sarà, ma al momento – e tutto lascia presagire che sarà un inarrestabile crescendo professionale – l’incidente probatorio non può che deporre meravigliosamente in suo favore. Sì perché in quel ristorante-pizzeria, l’ultima e prima volta che ci sono stato risale a trecentosessantacinque giorni prima, l’estate precedente e fu proprio quella (pizza vegetariana, senza sale e birra media, chiara) l'ordinazione. E quanti ne avrà visti, Jacopo, in questo arco di tempo, di clienti simili al sottoscritto? Una sfilza innumerabile; simpatici, generosi, indisponenti, avari, garbati, maleducati, ineducati, eleganti, pacchiani, taciturni, chiassosi. Insomma, tutto il genere umano rappresentato, idealtipicamente, una sera d’estate in un ristorante con terrazza dalla quale si intravedono il mare e il tramonto. E perché Jacopo si è ricordato del sottoscritto e soprattutto cosa ha chiesto e consumato, in quel locale, l’anno prima? Semplice: perché sa fare, meravigliosamente, il proprio lavoro. Speriamo che resti a Castiglioncello, Jacopo (che continui così, non abbiamo dubbi) e che non decida di andare a lavorare fuori dai confini di questo Paese incantevole (la P maiuscola è per la bellezza, che non ci meritiamo), perché sarebbe un altro caso lampante, dei tanti, di cervelli in fuga.
QUANDO a Pistoia aprì la redazione del quotidiano Il Tirreno (1989), il Festival Blues era nel pieno della propria bellezza. E da collaboratore in cerca di contratto, girovagavo per la città a caccia di commenti, con un fotografo alle spalle (prima Emiliano Liuzzi, poi Lorenzo Gori e dopo Gabriele Acerboni), che immortalavano, nei pomeriggi delle inchiestine, le sagome facciali degli intervistati (ai quali chiedevo nome e cognome, altrimenti: no generalità? No party!), prima di eternizzare, la notte, gli artisti sul palco di piazza del Duomo. Erano molti quelli che si lamentavano della manifestazione, per svariati motivi, uno più ridicolo dell’altro, ma quando arrivavo con block notes e penna e uno dei fotoreporter sopracitati al seguito, anche il più incallito e farneticante detrattore del Festival iniziava a tentennare, difendendo con minor vigore il proprio vantato purismo blues o sminuendo sensibilmente la propria xenofobia misoneista e il suo incomprensibile astio nei confronti dell’evento si scioglieva come neve al sole.
LA FRONDA dei disfattisti, con il trascorrere degli anni e delle edizioni, si è andata via via scemando; alcuni dei più ostici e refrattari sono morti; altri, invecchiati e afflitti da acciacchi, ma molti, la stragrande maggioranza, ha capito bene che questo Festival Blues, allora Blues’In, fosse, in realtà, un uovo dalle galline d’oro e che ne valesse la pena, per tre giorni su trecentosessantadue l’anno, sopportare qualche timido contrattempo. Domani, tredici luglio, quella meraviglia di piazza del Duomo, già impegnata con due concerti-faro, ospiterà la 39esima edizione del Festival musicale di Pistoia. Non sarà, probabilmente, la migliore, ma noi che le abbiamo viste tutte, vi diciamo che siamo contenti ed emozionati di sapere che anche quest’anno, Pistoia, sia ancora una volta inserita nel panorama mondiale degli eventi musicali. Quest’anno poi, che dopo alcune stagioni sperimentali (da un punto di vista squisitamente logistico, non sonoro), il Festival tornerà a indossare l’abito che più gli si addice; quello della festa lunga settantadue ore, con la città letteralmente invasa da mercatini ambulanti, colori, odori, gente di ogni razza e ceto. Tra questi, come accade ovunque si concentri una moltitudine di persone, è facile che cercheranno di infiltrarsi – e fare affari – anche loschi individui: ma loro non sono contemplati dalla Festa, ma, ci auguriamo, assicurati alla Giustizia. A quelli che invece, nonostante tutto e a prescindere, si ostineranno a osteggiare l’evento, rivolgiamo un caloroso invito: andate al mare; il meteo garantisce, da venerdì a domenica, gradevolissime temperature balneari. È vero, tale precedente demagogico suggerimento spolvera odiosi sinistri figuri, al di là di ogni inspiegabile prescrizione, ma questo Festival, a noi, ci piace, perché, per almeno tre giorni l'anno, per noi, è festa, perché a noi ce piace ‘o blues!
QUESTO IMMENSO la conoscono in pochi, di Pino Daniele. Primo, perché appartiene a un album, Dimmi cosa succede sulla terra, oggettivamente non proprio riuscitissimo, a differenza dei precedenti. E poi, è uno di quei brani, dell’inimitabile artista napoletano, che non è entrato, a pieno tutolo, nell’immaginario collettivo, come lo sono, senza ombra di dubbio, tutti i motivi dei primi quattro album: non offre rime inesorabili e, canticchiarlo, è, oggettivamente, impetuoso. Occorre avere una grande sensibilità artistica, per farlo; essere in possesso di un diaframma portentoso e conoscere, tassonomicamente, il rapporto che l’autore aveva con se stesso e con le sue canzoni. Sì, è l’identikit di Giorgia e infatti Giorgia si è presa la briga di interpretarlo, regalando, a quella sparuta rappresentanza di spettator/telespettatori che ha affollato l’arena calcistica partenopea e la prima rete televisiva, le emozioni del tributo. La serata organizzata allo stadio san Paolo di Napoli per la sensibilizzazione di due nobili cause e per consentire a chiunque abbia la patente di cantante, autorizzazione rilasciata non certo dalla motorizzazione, ma chissà da chi, di ricordare di essere stato amico, in un modo o in altro, di Pino Daniele, è stata oggettivamente brutta, compensata, ribadiamo, dalla magnifica interpretazione di Giorgia, semplicemente immensa, l’unica alla dignitosa altezza di poter ricordare lo scomparso Lazzaro felice. Di tutti gli altri, dai quali escludiamo gli strumentisti, naturalmente, non ne parliamo perché non abbiamo assolutamente nulla da dire, se non raccomandar loro limitare a ricordarlo, se ne han voglia, Pino Daniele, ma facendolo cantando le loro di canzoni. Che è già tanto!
PISTOIA. La chitarra, la voce e la faccia ce l'ha sempre messe, Emiliano Degl'Innocenti, anche quando andava di moda, anche quando eravamo in tanti a festeggiare, e non solo il 25 aprile, giornata storica, per questo paese, con la p sempre più minuscola. Lo ha fatto anche oggi, Emiblues (questo il suo nome d'arte), 25 aprile, con una maglietta rossa e la falce e il martello sopra, in un pomeriggio più estivo che primaverile, in quella piazza San Lorenzo culla di una lapide di memoria antifascista e antinazista, al cospetto di pochi, pochissimi spettatori, quelli che c'erano anche quando andava di moda, esserci. I compagni del terzo millennio non ci sono più e non solo il 25 aprile, in piazza San Lorenzo, a Pistoia, ma anche altrove e in tutte le date dell'anno. Qualcuno è stato saldato dai servizi segreti; altri si sono arresi all'evidenza e hanno deciso di prendere il posto dei loro padri alla direzione di banche e multinazionali. Qualcuno è morto di overdose. Altri ancora hanno scelto la via della legalità e sono entrati nel partito o nei sindacati, che li hanno lautamente ricompensati. E poi, diciamocela tutta: è lecito essere comunisti da giovani, ma da vecchi, ci si ravvede. Non tutti tutti, però. Qualcuno, come Emiliano Degl'Innocenti e chi decide di raccontarvelo, si ostina a restare con quell'idea meravigliosa in testa: che non succederà mai, ma se succedesse...
GIA’ ALLORA, nel 1978, tra il 16 marzo, giorno del rapimento di Aldo Moro e dell’ineccepibile mattanza militare, e il 9 maggio, quando il corpo dello statista democristiano, malvisto in America, come in Russia, poco simpatico agli Israeliani e ai Palestinesi, fu ritrovato, cadavere, nella bauliera della Renault 5 rossa in pieno centro storico a Roma, in molti, nella sinistra extraparlamentare, quella non corrotta dai servizi segreti, adombrarono il dubbio che dietro quell’azione – e in tutte quelle che seguirono - non ci fossero i rivoluzionari, ma i loro nemici. Oggi, a quarant’anni di distanza, con molti mafiosi ormai morti (di vecchiaia) e i vari ex brigatisti beatificati, perdonati e premiati con inviti a feste e tavole rotonde, con tanto di interviste nei resort intellettuali a discernere di memoria e controinformazione e un panorama internazionale letteralmente stravolto e irriconoscibile, quello che sospettavano i compagni di Autonomia Operaia di via dei Volsci non uccisi dall’eroina e non assunti in banca, inizia a serpeggiare anche tra gli amici di Moro, anche nei telegiornali di Stato. Raccontateci tutto, dài; fatelo per quei pochi che ci credevano, alla rivoluzione, e han perso, deponendo le armi e senza cambiare la giubba. È tardi, è vero, ma quelli che non si sono svenduti allora, lo hanno continuato a fare, preoccupandosi, soprattutto, di insegnarlo ai propri figli e certi sogni, quando si avverano, valgono una vita, anzi, una generazione.
QUANDO si cade prigionieri, bisogna accettare le regole dei vincitori, soprattutto quando non si è disposti, stoicamente, a cedere un passo e ancor di più quando chi vince, decide di risparmiarti. Specie in guerra. Lei in particolare, Barbara Balzerani, che la guerra ha finto di farla (ma i morti son tutti veri) e, condannata all’ergastolo, si è ritrovata fuori dalle galere, a chiacchierare, con un discutibilissimo senso dell'ironia, sulle piattaforme sociali. Non ci indigna il tono goliardico che Lei ha usato per festeggiare il quarantennale della mattanza di via Fani, quanto la sua colpevole e imperdonabile chirurgica superficialità storicista. Gli atti dicono che la mattina del 16 marzo del 1978 lei non sparò, vero (lo ha fatto in altre circostanze, in compenso e mai contro un nemico del proletariato), ma in qualità di dirigente della colonna romana delle Br, sul sequestro Moro, qualcosa di importante lo avrà deciso. Invece di chiedere asilo per come rievocare i fasti di quell’impresa, Sara, farebbe meglio a raccontare, almeno ai compagni di Lotta Continua prima e di Autonomia Operaia poi (ce ne sono ancora molti, in giro e tutti portano indelebilmente i segni della sconfitta), come andarono veramente le cose tra voi brigatisti, soprattutto dopo quel famoso 8 settembre 1974, quando a Pinerolo la Polizia arrestò Renato Curcio, ma non Mario Moretti, avvertito non si sa ancora da chi dell’imboscata. Potrebbe farlo, Sara, perché a differenza dei servizi segreti, i compagni di Lotta Continua prima e di Autonomia Operaia poi non lo hanno ancora saputo. Ma potrebbe farlo anche in virtù delle 69 candeline che proprio oggi, 16 gennaio, avrà spento, Sara, assieme ad altri miracolati come Lei, responsabili di aver mutilato la felicità di decine di famiglie e di aver irreparabilmente compromesso la Rivoluzione. O altrimenti, potrebbe anche scegliere di tacere, Sara, che forse sarebbe la miglior cosa, soprattutto perché ormai è tardi.
PISTOIA. Il Pd, che nei sondaggi perde quota vertiginosamente a ritmi quotidiani, da ieri sera ha un nuovo iscritto: è il fonico della festa in piazza del Duomo. Più cattivo, con i musicisti (Michele Beneforti, abbi pietà per i tuoi colleghi che son restati), con il Sindaco e la sua Giunta, salita sul palco a salutare la cittadinanza dopo la mezzanotte (così abbiamo immaginato che abbiano fatto, gli assessori, perché non s’è capito niente di quel che han detto) sarebbe potuto essere solo Samuele Bertinelli. Anche perché, ieri sera, si è ufficialmente chiuso l’anno nel quale Pistoia, chissà perché, è stata nominata capitale della Cultura e proprio per cedere il testimone (a Palermo, se non sbagliamo) nel migliore dei modi, si sarebbe potuto fare un briciolo meglio. Vabbè, sarà per la prossima volta. Noi, ovviamente, non ci saremo; ma nemmeno voi, eh!
FINALMENTE, alla direzione artistica, ma soprattutto alla presentazione del Festival di Sanremo, il gotha della Rai sta piazzando (la trattativa sembra essere in dirittura d’arrivo) Claudio Baglioni. Che non ci fa impazzire, teniamo a precisare, ma che è, indiscutibilmente, uno dei più fertili cantautori pop della scena italiana da oltre quartant’anni. Soprattutto alla presentazione, teniamo a sottolineare, perché finalmente, quei dieci milioni e passa di telespettatori che si inchioderanno davanti ai propri piccoli schermi nella settimana ligure per parlare, puntualmente, male, malissimo, di tutto e di tutti, con lui si toglieranno il cappello, perché quando dalla scalinata dell’Ariston scenderà il concorrente di turno, Claudio Baglioni, di quella voce che andrà a esibirsi, potrà dire, competentemente, tutto ciò che vuole, senza limitarsi a quei sorrisini di merda che infestano ogni conduzione televisiva. L’augurio, per concludere l’auspicio che si tratti di una vera e propria inversione di tendenza, è che accanto al cantautore romano, viale Mazzini, invece che la solita oca di turno, opti anche per assoldare un'altra voce, al femminile, altrettanto autorevole, romana, come Baglioni: Giorgia, ad esempio. Una buona notizia, insomma. Anzi, due
IL CORPO era in uno stato di putrefazione avanzata. Solo l’esame autoptico dirà con certezza da quanti giorni fosse morta Carlotta. Se fosse deceduta nei suoi anni migliori, quelli che l’elessero regina incontrastata del black carpet delle Cascine, a Firenze, se ne sarebbero accorti subito in tanti: i clienti, numerosissimi; le colleghe di marciapiede, di sogni, di illusioni, che un po’ la invidiavano anche, ma che erano felici che lei sfilasse al loro fianco, garantendo traffico in tilt e affari; e quella miriade di visitatori che il sabato sera, evaporata l’ebrezza notturna ufficiale con fidanzate fedeli, innamorate, ma per nulla trasgressive, andavano a ricaricarsi al Parco, dove Carlotta e le sue compagne di eccessi eccitavano il popolo, pronto, quest’ultimo, ad additarle, condannarle e crocifiggerle appena rispuntava il sole. Aveva 57 anni, Carlotta. È tornata a morire nella sua Lecce, dove era nato Carlo Paiano. Ma è morta da sola, ironia della sorte e dell’inevitabilità delle esagerazioni, senza che nessuno se ne sia accorto, senza che nessuno ne abbia sentito la mancanza. Riposa in pace, principessa delle notti vietate, nell'augurio che un giorno tu rinasca in un corpo nel quale tu possa riconoscerti.
PERUGIA. Cortesia e gentilezza si sposano, quasi sistematicamente, in ogni albergo del Mondo. Anche qui, al Giò Hotel di Perugia, il personale si allinea al minimo comune multiplo globale. Infatti non è del personale che vogliamo parlarvi, ma della struttura (abbiamo già pagato, non sono salamelecchi). Un albergo d’artisti, voluto – mi dicono dalla reception – dai titolari, amanti, indefessi, del vino, del jazz e della cioccolata. Per la cioccolata bisogna pernottare altrove, sempre qui a Perugia; per il vino e il jazz, siamo dove dovremmo essere.
Aveva due grandi passioni, Lucone: la musica e l’allegria. Della prima s’è cibato per tutta l’adolescenza, diventando, nella comitiva del bar Mazzini, nella zona ovest di Pistoia, dove è cresciuto con i suoi insperabili amici, una rispettata e attendibile fonte di informazioni e novità discografiche. Per alimentare la seconda, invece, gli bastava un sorriso, due chiacchiere sincere e un boccale di birra. Parlava di rock e jazid con la stessa misurata competenza, Lucone; anche di calcio, certo, ma a quello degli idoli strapagati, preferiva quello delle partite disputate nel campino, con i suoi amici di progetti e sogni, speranze e illusioni di una vita intera. Stanotte, il destino ha interrotto la sua corsa, per sempre. Domani, alle 14, lo piangeremo tutti insieme, ai suoi funerali. Poi, con il tempo, il pensiero e il ricordo si affievoliranno, come è inevitabile che succeda. Però, ognuno di noi, si porterà in dote la sua semplicità, la sua disponibilità, la sua silente gioia di vivere, la sua incrollabile amicizia e succederà spesso, sorseggiando una birra, di sorridere e brindare alla tua memoria, Lucone.
GLI ESULI festeggiano: sono convinti che d’ora in avanti, a Cuba, andrà meglio. Sì, perché ora, a Cuba, dopo la morte di Fidel (scoccata stanotte, a novant'anni), del Comandante, tanto lentamente quanto inesorabilmente, arriverà la democrazia, ma quella con la d minuscola, naturalmente. Che sarà quella che la piccola isola felice importerà dai limitrofi Stati Uniti, dove senza soldi non si è nessuno e con i dollari, si può tutto. A noi invece, la morte di Fidel Castro ci addolora, molto, in modo quasi inconsolabile.
di Lucilla Bernardini
Le parole sono importanti, si sa. Che le relazioni interpersonali si dicano legàmi ha un significato e un significante preciso. I legàmi più significativi si hanno tra persone che, a loro dire, si amano. Quando ci si lega a qualcuno si inizia con fili sottili, di seta: un braccio legato a un orecchio, per esempio; tu muovi la testa e io avverto il braccio che si sposta: è piacevole, ricorda la presenza della persona amata, niente di male. Poi i fili si moltiplicano: un piede con un occhio, un fianco con un gomito, una spalla e una coscia indissolubilmente avvolti nella stessa matassa, stessa ragnatela, leggera, ma ingombrante. Ora, a ogni tuo movimento, a ogni respiro, sento il legàme che tira di qua e di là, che impedisce di camminare con scioltezza, stringe il collo e soffoca, rallenta, rallenta entrambi.
Aida Hadzialic è musulmana. E’ nata 29 anni fa in Bosnia-Erzegovina, ma a soli 5 anni, con la famiglia, è andata a vivere in Svezia. Dove è diventata, con i socialdemocratici, ministro dell’Istruzione. Giovedì sera, al volante della sua auto di ritorno da un concerto, è stata fermata da una pattuglia della stradale, che l’ha sottoposta all’alcoltest: la macchinetta ha sentenziato 0,2 (due bicchieri di vino, all’incirca). Ritiro della patente, denuncia e fermo, con il rischio tangibile di una lunga detenzione. Non vi vogliamo parlare delle donne, nemmeno di quelle musulmane, né tanto meno di integrazione, e neanche di rigore eccessivo, anche se sarebbe comunque opportuno, e sintomatico; ma di democrazia, altissima. Aida Hadzalic, la mattina successiva, venerdì, si è dimessa, dicendo "di aver fatto il più grave sbaglio della mia vita". Il premier Stefan Lofven, socialdemocratico anche lui, non ha provato minimamente a sminuire l’accaduto, ma l’ha immediatamente sostituita con Helene Hellmark Knutsson.
La sola differenza, tra Pistoia e le molte altre città d’Italia nelle quali l’amianto ha fatto strike, riguarda le condanne ai responsabili. Lo scriviamo ora (ma ne abbiamo scritto e videodenunciato tanto, in tempi non sospetti, quando ‘unsisapeanulla) perché Elena Stoppini, giudice di Ivrea, ieri non ha guardato in faccia nessuno quando ha condannato, per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose ai danni dei dipendenti, Carlo De Benedetti, amministratore delegato e presidente della “Ing Camillo Olivetti spa” dal 1978 al 1996. Oltre ai cinque anni e due mesi comminati all’attuale editore, tra i condannati figurano il fratello Franco e Corrado Passera (solo per citare i rei più famosi). Le condanne sono figlie dei verdetti di Laura Longo e Francesca Traverso, le due pm secondo le quali i vertici aziendali non avrebbero impedito l’insorgenza del mesotelioma pleurico, tumore provocato dall’esposizione all’amianto, che ha provocato la morte di nove ex dipendenti, tutti addetti al montaggio delle macchine da scrivere usando l’asbesto contenuto nel talco che serviva per facilitare lo scorrimento delle parti di gomma, come i cavi, in quelle di metallo. Va bene, la Breda non esiste più: oggi si chiama Hitachi, ma i morti di via Ciliegiole, molti di più di quelli di Ivrea, nel frattempo non sono resuscitati!
Ieri, a Versailles, un poliziotto francese si è rifiutato di stringere la mano al suo Presidente Francois Hollande e subito dopo anche al premier Manuel Valls: era vestito in completo blu aviazione, come molti altri suoi colleghi, camicia celeste e cravatta blu, con i capelli corti come vanno di moda ora, meno folti sulle tempie e stava sull’attenti, pancia in dentro e petto in fuori, con un rigore e una serietà impeccabili. Quando il Presidente è passato davanti al giovanotto, quest’ultimo è rimasto con le braccia conserte dietro la schiena, senza battere ciglio. Francois Hollande ha visibilmente accusato il colpo, ma ha cercato di non darlo a vedere, proseguendo la parata delle strette di mano. La cerimonia era stata indetta per ricordare i due poliziotti uccisi a Parigi da un jihadista.
Ogni tanto ci si imbatte in qualche giornalista e quelle rare volte che succede ci si ricorda che questa è ancora una delle professioni più affascinanti. E’ successo venerdì 14 aprile, alla libreria Lo Spazio, in via dell’Ospizio, a Pistoia, dove sono venuti a parlare del loro libro-dossier, Setta di Stato, Francesco Pini e Duccio Tronci, due colleghi, appunto. Grazie a loro, la storia schifosissima del Forteto, oltre che nelle aule giudiziarie, potrà arrivare nelle case di chiunque decida acquistare il volume (AB Edizioni, 15 euro).
C’è una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Lo scriviamo ora perché a 38 anni da quel massacro, politicamente esemplare, militarmente ineccepibile, l’Ordine dei Giornalisti della Toscana, a proposito dei crediti obbligatori per tutti gli iscritti, ha organizzato, nel pomeriggio del 12 febbraio, in una delle sale-conferenza del Credito della Valdinievole, a Montecatini, un incontro con due tra i tanti studiosi del caso irrisolvibile, più che irrisolto: Stefania Limiti e Sandro Provvisionato, autori, a quattro mani, di Complici. Ci preme aggiungere, oltre ai numerosi nuovi e vecchi dati gentilmente e tassonomicamente offerti dai due colleghi su quei 55 giorni che cambiarono la faccia di questo paese, che noi restiamo comunque della nostra idea: le Brigate Rosse cessarono di esistere l’8 settembre 1974, quando fu arrestato Renato Curcio. Quello che successe dopo – non solo Aldo Moro: Bachelet, Tobagi, Rossa, Alessandrini, in ordine funereo sparso e non ce ne vogliamo i familiari delle vittime non citate – fa parte di una strategia che noi umani non possiamo nemmeno immaginare; ma i servizi segreti sì.
Sono sempre stato ipercritico nei confronti di Pistoia, città dove vivo da 33 anni. Sono molte le cose che non funzionano come dovrebbero, ma la nomina di oggi a capitale italiana della cultura per il 2017 è una notizia che, da pistoiese seppur adottato, non può che rallegrarmi. Un’occasione straordinaria, stratosferica, semplicemente irripetibile, nel breve e medio periodo e che nessuno, in città, si può permettere il lusso di lasciarsi scappare. Abbiamo tutti undici mesi di tempo per farci trovare preparati ad un appuntamento che non possiamo in alcun modo ciccare. Approfittiamone davvero tutti di questa opportunità, per diventare prima di ogni altra cosa, cittadini e poi amministratori e poi soggetti veicolanti arte e poi commercianti all’altezza di questa nobile, impegnativa e orgogliosa investitura.
di Cinzia Lumetta
FIRENZE. "In queste ore decine di televisioni nazionali e internazionali ci chiedono di testimoniare con le nostre famiglie quello che sta succedendo nell'ultimo pezzo d'Europa che ancora non da risposte alla nostra richiesta di diritto. Comunque vada in Parlamento, noi una battaglia l'abbiamo già vinta. Eravamo famiglie fantasma per milioni d'italiani, ora siamo una realtà che nessuno può negare e che anzi la maggioranza degli italiani chiede che sia tutelata."
Non abbiate fretta, per carità. Dateci il tempo di crescere, diventare grandi. Le idee, in compenso, seppur pochissime, ad onor del vero, sono già chiare. E forti. L'augurio è che questo sito di informazione culturale incontri il favore degli addetti ai lavori che si sentano in diritto (e in dovere) di dire la loro. In attesa che la famiglia di Meglio Meno si allarghi, continuiamo a tenervi informati su quello che ci sentiamo in corda di raccontarvi. Lo faremo sempre, in prospettiva, lo faremo con la passione che ci contraddistingue da sempre, da quando, poco più che mocciosi, ci siamo incontrati e ci siamo riconosciuti, annusandoci. L'odore è quello di allora. Le idee anche.
Non arriveremo mai primi. Perché siamo e saremo lenti e poi perché non gareggeremo. Con questo sito di informazione povera e per nulla concorrenziale proveremo ad offrire ai lettori quello che modestia e ipocrisia suggeriscono puntualmente di evitare: giudizi, commenti, recensioni, critiche, riflessioni. A voce alta, anzi, scritta.
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Finché c’è morte c’è speranza, del resto: dunque, meglio meno. Ma meglio!