di Paolo Ferro

HO SEMPRE AVUTO la sensazione che i cantautori fossero principalmente dei grandi estimatori di loro stessi. Dei narcisi, egocentrici individui che, in relazione alla propria più o meno grande notorietà, concedessero la possibilità di essere ascoltati. Un giorno, però, mi sono imbattuto in Paolo Benvegnù. Era appena finito il suo concerto e io, sfacciatamente, lo avevo avvicinato per consegnargli un mio disco, consapevole dell’inutilità di quel gesto, egoistico e privo di un vero interesse per la persona a cui lo porgevo. La persona. Io porgevo il mio disco al cantautore e da lui mi aspettavo la fredda non risposta. Quello che successe qualche giorno dopo, invece, fu quanto di più stupefacente avessi mai immaginato: Paolo mi scrisse una mail che mi costrinse alle lacrime e che terrò sempre con me. Aveva ribaltato il senso della storia, mi aveva ascoltato, ma non aveva ascoltato le canzoni, aveva ascoltato me. Le cose che mi diceva erano frutto del passaggio delle mie parole dentro di lui e me le stava restituendo cariche di Grazia. Ecco, la Grazia. Paolo Benvegnù era capace di infondere grazia in tutto quello che faceva, a partire dal darti la mano, salutarti, inventare un’iperbole che ti facesse sentire migliore di quello che sei, spesso sminuendosi e rendendosi il più umile dei cialtroni. Ma perché lo faceva? Era un modo per camminare dentro le anime delle persone che lui sapeva essere fragili. Si muoveva con una delicatezza degna di chi attraversi un mondo di cristallo, consapevole che basta una goccia di pioggia, a volte, per ferirsi. Accanto a lui ti sentivi unico, protetto e indispensabile. E adesso che manca non si può fare a meno di combattere la retorica, di sentirsi sciocchi a cercare le parole, cosa che lui faceva molto meglio di tutti noi. Provate a leggerlo se avete voglia. Vi accorgerete che tutto era già scritto lì e che sarebbe bastato farci attenzione. Tieni la barra dritta, mi diceva. Ora che il suo spirito si è dissolto nell’universo, noi che l’abbiamo vissuto, a cui diceva sono contento di essere un tuo contemporaneo, abbiamo il dovere di essere migliori, di mettere il nostro sassolino sul piatto giusto della bilancia. Se n’è andato un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro in un secolo. Ciao Paolo, che la tua leggerezza ci sia di lezione.

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