di Chiara Savoi
SIENA. Siamo in Sicilia e l'anno è il 1862 e già dal titolo, Amori e sapori nelle cucine del Principe (di Roberto Cavosi e la regia di Nadia Baldi), sappiamo che ci saranno sicuramente riferimenti al testo di Tomasi di Lampedusa e che forse assisteremo a una sorta di rumori fuori scena, scoprendo cosa poteva accadere nelle cucine durante il famoso ballo del Gattopardo in cui il principe Salina balla con la figlia del parvenu Sedara, Angelica. Così si apre il sipario e, invece di recitare il rosario nel salone della villa con Donna Stella, la moglie di Salina, che dà inizio al romanzo, il rosario viene recitato in cucina dalla cuoca e i suoi sottoposti. I riferimenti al Principe, a Sedara, a Garibaldi e all'Italia che sta nascendo sono tanti e fanno da contorno alle portate della cena: sembra quasi che l'Italia debba farsi dentro quella cucina. Apparentemente tutto tranquillo: torna il figlio in congedo e gli ordini per cucinare sono stati fatti. Eppure, se vogliamo che tutto cambi, bisogna che tutto resti così. Ma niente resta così perché arriva il cuoco del Principe e sconvolge tutte le carte, le pietanze e mette persino in discussione come Teresa/ Marianna sia diventata cuoca. Discussioni, litigi ed erotismo (grazie all'azzecatissima figura della servetta) che ostacoleranno la preparazione del banchetto. La regia è fresca e vivace, grazie all'uso sapiente delle luci, della musica e di una scenografia con cui giocare per tutto il tempo. I fuochi della cucina sono scale, panchine, letti e piedistalli. I lampadari diventano le crinoline delle dame, ma anche oggetti che volano in un momento di disperazione.
PISTOIA. E Momò che fine ha fatto poi? Nadie, la bellissima Nadie, con i capelli biondi con i boccoli, avrà continuato a pensare al piccolo figlio di nessuno, salvato, almeno per i primi quattordici anni della sua vita dall’amore di Madame Rosa, ex prostituta ebrea che per contrappasso ha deciso, una volta non più abile a fare le marchette, di accudire alcuni dei figli delle sue colleghe nati per sbaglio? Il teatro non è soluzione; il teatro è provocazione, denuncia, occasione. E allora, è opportuno che il romanzo di Romain Gary, che per vincere la seconda volta il premio Goncourt dovette adottare uno pseudonimo, Emile Ajar, venga catapultato sul palcoscenico e diventi una tragicomica rappresentazione. Tragica, perché non potrebbe essere altrimenti: bambini senza genitori cresciuti in un ostello riservato a figli di prostitute distratte, in un penoso meltinpot di solitudini astrali, non può che generare sconforto e pietà; ma anche comica, perché la capacità di adattamento di ognuno di loro e in particolare del piccolo Momò, il più grande dei bambini di questo strano asilo in una banlieu parigina, diventa il diritto resurrezionale di un’umanità intera, un’altalena di emozioni che rimbalzano, sistematicamente, dalle lacrime ai sorrisi. Silvio Orlando, protagonista assoluto e solitario – anche se la presenza musicale dell’Orchestra Terra Madre (Simone Campa alla chitarra, Gianni Denitto al clarinetto, Maurizio Pala alla fisarmonica e Kaw Sissoko al kora e al djembe), con la quale chiude la scena con un bis musicale nel quale racconta la sua prima passione artistica, il clarinetto - di questa trasposizione teatrale, sembra egli stesso cresciuto in uno di questi asili per bambini sfortunati.
di Sura Bizzarri
ACCADDE PER CASO, proprio come accadono molti degli avvenimenti e incontri della nostra vita. Ero fuori senza un motivo preciso durante un tiepido pomeriggio tipicamente primaverile. Alcuni operai del Comune, braccia tese e piedi ben piantati su lunghe scale metalliche, stavano staccando dai fili tesi della corrente i vecchi lampioni che per più di cento anni avevano illuminato le sere e le notti della piazza. Stavo assistendo alla loro dismissione in favore di nuovi prodotti a basso consumo energetico. Mi fermai a guardare, gli occhi protetti dall’alto edificio che si frapponeva fra me e il sole. Ricordo che l’angolazione della luce incastrata nella fessura fra due costruzioni combaciava perfettamente con le scanalature circolari che decoravano il lampione. Ero dispiaciuto; quelle belle forme lucide e tondeggianti, quelle pance ben tornite ma leggermente picchiettate dalle intemperie avevano un fascino che profumava di storia, di stagioni trascorse, di incontri e vite ormai tramontate. L’operaio, scendendo gli ultimi gradini col lampione fra le braccia, discuteva col collega del suo smaltimento. La cosa mi colpì; dopotutto io stesso avevo trascorso lunghe serate seduto sui gradini della chiesa, sotto la loro luce rotonda, a parlare del tutto, del niente, o semplicemente a lasciarmi invecchiare dalle ombre serali. L’operaio doveva aver notato l’insistenza del mio sguardo. Li vuoi? Noi li buttiamo via.
di Sura Bizzarri
DALL’ALTOPIANO vedevo le luci della città, lontane, nell’aria diafana e spessa di tanta distanza. La sera quelle luci brillavano forte, al pari e più delle stelle. E i suoni che riuscivano a raggiungermi erano piccoli boati ovattati, squarci nel silenzio dell’orizzonte che dilatavano i confini ristretti del mio territorio. La fattoria, le mucche, il rumore delle zappe che affondavano nel terreno. La limpida esattezza dei gesti degli uomini nei campi. E quelli delle donne, ripetuti con monotona ma viva continuità nelle cucine. Ero sopraffatto dal mio mondo, dalla sua saggezza, dalla manualità con la quale era capace di trarre sostentamento dalla natura. Quella era la mia musica, la prima che conobbi, la più importante. Il muggito delle mucche, le loro campane nel vento, il belare delle pecore, il suono delle seghe, le voci degli uomini, i loro canti senza strumenti. La mia musica era il tonfo degli scarponi nei solchi allagati dopo le piogge, era il fruscio della stoffa lungo gli attrezzi e il respiro gonfio di erba degli animali. Il mio suono era la lentezza, quella dei gesti antichi e quella dell’attesa, l’attesa perenne. Delle stagioni, dell’essiccamento dell’erba accumulata, della maturazione dei frutti e delle messi in estate. L’attesa della tosatura e del sabato sera per incontrare gli altri, della domenica per riposare. L’attesa confusa, ma evidente, che qualcosa evolvesse, che il grumo che sentivo in gola trovasse il coraggio di esplodere. E quell’attesa io la misuravo col ticchettio dell’orologio sulla parete della cucina, a sinistra della stufa, col continuo soffio dei miei respiri, col rintoccare delle campane e i rumori domestici. Con le voci di casa mia.
di Sura Bizzarri
L’IMPIANTO dell’edicola di Gesù Cristo nel nuovo muro coincise pericolosamente col ritorno del figlio ormai creduto disperso. La devozione di mia nonna diventò maniacale. Lei che aveva pregato tanto, che aveva tirato in ballo tutti i santi del calendario, che non si era arresa davanti alla manciata di speranze che ogni giorno si faceva più esigua. La sua era una religiosità ottusa, rivolta più a proteggere sé stessa e la sua numerosa prole, piuttosto che a una seria consapevolezza della fede come dogma morale, come dottrina di giustizia universale. Quando l’edicola fu posta nella strada e, nello stesso momento il ragazzo riapparve dopo tanti anni, bello, in salute, la sua fede esplose di pari passo alla gioia deflagrante di una madre che ritrova il figlio disperso in guerra. Non dico che mia nonna impazzì, ma il suo equilibrio granitico subì una mutazione molto simile alla follia. Da quel momento i suoi riti religiosi diventarono piuttosto riti personali che si moltiplicavano e complicavano sempre più. Col ritorno dello zio in realtà perdemmo mia nonna, chiusa in una religiosità scaramantica che occupava ogni suo pensiero e gran parte della giornata. Ogni volta che noi ragazzi uscivamo di casa, lei ci benediva con riti che esulavano da quelli cristiani. Aveva coniato un cerimoniale che ci avrebbe protetto da qualunque pericolo.
di Sura Bizzarri
LE COSE BELLE, quelle veramente belle, non hanno bisogno di mediazioni. Ti entrano dentro, ti bucano, ti trapassano. Sorpassano il clamore, le grida e gli eccessi della volgarità. Dallo schiamazzo di un bazaar orientale ti ritrovi nella pace mistica di un riad, nel quale giungono solo, da direzioni diverse, i canti dei muezzin che richiamano alla preghiera. Le cose veramente belle sono sostanzialmente sporadiche; una musica, una melodia che raggiunge l’apoteosi, diventa un cliché se ripetuta continuamente. Il tripudio del pubblico, così trascinante nel momento di gioia e commozione collettiva, si lascia impoverire e banalizzare dalla ripetizione costante, fino a diventare tedio. Sono le note giunte inaspettatamente all’orecchio, le pitture con le quali ci incontriamo, o scontriamo, casualmente, le parole concatenate e pronunciate con tono pacato ad assumere un valore assoluto, irraggiungibile, invalicabile. Poiché abbiamo coscienza che da quel momento non saranno più sulle nostre labbra, che sono l’istante irriproducibile di collegamento con la nostra coscienza. E in quella consapevolezza tutti i sensi convergono per rendere l’attimo irripetibile. Una sorta di orgasmo dell’anima. Clara da molto tempo vive nel silenzio. Non ha bisogno del clamore, della folla, della gente. Lei abita il suo mondo pallido in modo da poterlo colorare attraverso sé stessa. Perché da diverso tempo ha imparato a vivere di sé, a contare solo sulla forza della sua stessa forza. Era un mattino d’inverno, presto presto, quando la morte venne a trovarla.
di Sura Bizzarri
MAMMA, davvero dobbiamo morire tutti? Io voglio che tu non muoia mai. A Compiobbi, fra il ‘300 e il ‘400, viveva una piccola comunità di frati. Al di là delle alte mura del convento, che custodivano la vita, le speranze e la morte di quei frati attraverso una cappella, alloggi sicuri e silenziosi, orti ben coltivati e un piccolo cimitero, c’era un albero carico di frutti. Notoriamente gli alberi fioriscono in primavera e fruttificano in estate, ma quello era un albero anomalo. Nel tardo autunno, quando le foglie ormai ingiallite cominciavano a cadere lasciando nudi e inermi i rami nodosi, quando attraverso le fessure delle mura si intravedevano le piccole celle che parevano grotte ricavate nella nebbia, proprio allora il colore dei suoi frutti raggiungeva l’apice d’intensità e spaccava il grigiore circostante. Era un paradosso, un gioco di contrasti che gli occhi di chiunque passasse non potevano ignorare. A quei tempi, Elia, non si scattavano foto, altrimenti resteresti meravigliato dall’immagine dei grossi rami di quel possente albero straordinariamente aperti e ornati di frutti succosi, belli da vedere e buoni da mangiare. Immagina, Elia, il grigiore di un convento medievale costruito coi sassi del fiume e l’esplosione creativa dei rami tesi, come braccia nude, a dispensare colore nel cortile di pietra. E i piccoli frati racchiusi in umili sai marroni, persi nei loro mille, centomila passi operosi. Quell’albero era l’immagine stessa del convento e in quanto tale veniva custodito e venerato al pari di un prezioso crocifisso. Intorno a questo si svolgeva la vita di quella comunità capace di autosostenersi col lavoro di raccolta e con la fabbricazione di medicamenti terapeutici.
di Sura Bizzarri
MIA NONNA era nata in Ucraina, all’inizio del secolo scorso. Da sempre la sua famiglia si occupava di cibo; una cucina e una stanza abbastanza grande con tavoli, sedie e finestre grossolane di tende ricamate. Un orto ben coltivato suddiviso in solchi e quadri che delimitavano le diverse colture, galline e conigli. Cucinavano per la gente, per lo più per i lavoratori delle miniere; piatti poveri ricavati dai prodotti del loro appezzamento. Lei era ancora giovane quando scoppiò la guerra. E quando i tedeschi occuparono il suo ristorante obbligandola a cucinare per loro, lei e l’intera famiglia furono additati come collaborazionisti. Olga, con il giovane marito partito per la guerra, si addentrò nella foresta con la figlia fra le braccia per non fare più ritorno. Quante volte ho ascoltato la sua storia nella cucina nella quale lei si muoveva ancora sicura di sé, sebbene appesantita dall’età. E ogni volta saltava fuori un particolare in più a ricostruire un romanzo che mai era stato scritto. Le sue mani nodose accarezzavano la mia testa mentre con i grossi incisivi addentavo il pane imburrato che lei mi aveva preparato. Il sapore del pane mi pareva antico, come se le sue mani avessero impastato il grano proveniente dalle steppe ucraine. Ero piccola, la mia immaginazione si addentrava nei boschi muschiosi e freddi di cui lei mi parlava, gli occhi della mente percorrevano distese di betulle argentate per scorgere anfratti protetti nei quali la nonna e sua figlia avrebbero trascorso la notte. Era ancora bella, mia nonna, gli occhi chiari aperti come una piazza sul mare, il viso pallido senza rughe, i capelli raccolti in un ricordo di femminilità. Per un bimbo tutto è facile, la sua fiducia nelle parole degli adulti è completa e incondizionata. La fuga della nonna mi pareva un gioco fatto di belle passeggiate nei boschi e rifugi improvvisati sotto foglie morbide, sotto le stelle.
di Sura Bizzarri
SI ENTRA in una famiglia semplicemente venendo al mondo, casualmente. E lì si cresce imbevendosi inconsapevolmente del suo dna, della sua vita propria, delle sue abitudini, dei suoi personaggi. Mica ci si chiedono perché. Quella in cui cresciamo è la normalità, lo stato acquisito, è tutto ciò che conosciamo della vita, è tutto ciò che esiste per la mente vergine di un bimbo. Le regole della casa diventano le nostre regole. Il modo di disporre gli oggetti, l’armadietto delle medicine, il posto delle stoviglie nella credenza, le piantine grasse sopra il frigo e la chiave nell’incavo fra il conchino e il pozzetto dell’acqua. L’orologio nel primo cassetto e le candele per quando va via la luce nell’interstizio fra il contatore e la mensola. La frutta sul centro tavola e le mollette per i panni appese al davanzale. Giovannino conosce bene queste abitudini, ha esercitato spesso la sua fantasia nel rivoluzionare la disposizione degli oggetti, ma non una di esse la mamma ha evitato di correggerlo e la nonna ha sempre rincarato la dose. Giovannino ricorda, da quando esistono i suoi ricordi, di aver visto la zia Nora, la signora col velo, nell’angolo estremo della cucina, seduta sulla vecchia sedia di vimini con lo sguardo fisso sul pavimento. Quello che per altri può sembrare un comportamento bizzarro per lui è la normalità. Va da sé che qualche volta abbia inciampato nella sua lunga gonna scura e che nei suoi innumerevoli nascondigli si sia avventurato fra le sue gambe ferme, proprio sotto la cappa pesante di stoffe austere.
di Elena Bernardini
NON PUO’ RITORNARE chi ha sentito la voce delle sirene. Non può stare con le ali ferme e i piedi a terra chi azzarda il folle volo. Passavo i giorni sull’ultimo scoglio dell’isola, cercando di trovare vele. Guardavo il sud attraverso il mare e mi sembrava tanto grande che gli occhi accecavano da tanta luce e da tanti miraggi. Al crepuscolo, poi, era la spiaggia a contare le mie orme: io non mettevo insieme i numeri. La pazienza si impara intrecciando i fili della mente, sottili come tela di ragno che cattura gli insetti. Alcuni servono come nutrimento, altri vengono osservati durante l’agonia fino a quando non decidi se liberarli o lasciarli morire. Anche la fedeltà si impara. La sua forma muta, come quella dell’amore: te ne accorgi guardando il mare che resta sempre se stesso, si adatta a venti, correnti, pesci, navi, sirene e mostri ma, con il suo andare e tornare, abbraccia sempre la terra. Io sono terra. Tu sei mare. Il tuo abbraccio adesso è per una terra che si è fatta diversa, restando sempre se stessa. Ho arato, dissodato campi; li ho concimati con i pregiudizi, con la fissità delle icone; li ho curati con la consapevolezza della fatica che serve a rendere una terra fertile per se stessa. I frutti sono aspri, ma dolcissimi se ne sai incidere la scorza. E comunque mai velenosi, e abbondanti. È terra generosa quella che impara se stessa.
di Sura Bizzarri
LO CONOSCEVO solo come un nome, un brusio in televisione, un suono soffiato nelle orecchie, ma mai giunto veramente al cervello, voci che ne parlavano in strada, nei bar. I discorsi uggiosi che ai ragazzi proprio non interessano, parole ripetute che diventano vuote, incolori, inodori. Ma quel giorno ero a Roma, avevo accompagnato mio nonno a trovare suo fratello, che lì si era trasferito nel primo dopoguerra. Stavo a tavola con persone di cui tanto avevo sentito parlare, ma mai avevo conosciuto. E non era un pranzo di circostanza, di quelli in cui si scartano i regali di Natale e si sprecano, l’uno verso l’altro, complimenti improvvidi. Figuriamoci! Due vecchi fratelli che non si vedevano da almeno trenta anni senza mai telefonarsi, sentirsi; di convenevoli ne avevano davvero pochi. Era piuttosto un pranzo di luce, di abitudini diverse. Un pranzo pacato, sobrio, ma non elegante. Poche parole per raccontare cinquant’anni trascorsi. Oltre ai nonni, ormai vedovi, c’erano i figli e i nipoti. Ragazzi come me, nati e cresciuti a Roma, estranei, coi quali mi rendevo conto di condividere qualche tratto somatico. Nonno Cesare e lo zio Sergio, i due attori, parlavano piano, con gli occhietti stretti fra le rughe di sorrisi ormai addomesticati dal tempo. Noi, tutti gli altri, i commensali comparse, coloravamo e perfezionavamo i loro dialoghi. Per me fu una suggestione, tanti momenti della vita lo sono, o lo diventano, tanto quella giornata si è cristallizzata perfettamente nella mia memoria.
di Sura Bizzarri
I TRAMONTI non sono mai tutti uguali. Talvolta si somigliano fin quasi a sovrapporsi, ma in ognuno di essi c’è una tonalità, una diversa composizione del muro di nuvole, qualcosa che scivola come un refolo di vento a spezzare il confine labile fra mare e cielo. Per l’occhio vigile, l’occhio dell’uomo, quello che ogni sera passa a dare il cibo ai pesci, ogni minimo dettaglio è un’informazione, un segnale che allerta la sua attenzione. Il colore dell’acqua, la densità stessa dei pesci, la direzione del vento che annuncia bonaccia o maestrale, l’increspatura dell’acqua o il tenore dello sciabordio lungo la paratia. Ogni mattina, all’alba, l’uomo infila gli stivaloni e ripulisce le vasche, pastura i pesci e misura tutti quei parametri che fanno sì che l’allevamento viva, si alimenti e cresca in salute. E ogni sera, al tramonto, è necessario controllare di nuovo lo stato delle cose e nutrire con farine industriali le bocche aperte come in cerca d’aria di quei pesci abituati soltanto a mangiare. Spazio per muoversi ne hanno poco, del mare lì nelle vasche c’è solo l’acqua. Non esistono i fondali, la profondità, il rumore del vuoto. Non esiste la libertà. Quei pesci sono tanti piccoli meccanismi industriali che si muovono in sincrono e condividono uno spazio sufficiente solo per mangiare. Le regole della vita hanno abdicato in favore di quelle della produzione.
di Sura Bizzarri
APRIRE gli occhi è un gesto comune. Non per chi è nato da poco, non per chi ancora deve assorbire meraviglia e stupore. Il grande corpo della madre è sospeso accanto a lui, nell’abisso, che la sua percezione ancora non riesce a concepire completamente. La temperatura è piacevole, il silenzio appena increspato da piccoli movimenti curiosi. Un picchiettamento di puntini frastagliati, là sopra, in alto, scuote la superficie che diventa maculata. Piove! Persino qua, nel profondo, si avverte quella punteggiatura disordinata che cade dal cielo. Sotto la superficie, nella pancia più profonda del frutto, protetto da una distanza che pare infinita, Jiiiii avverte con piacere la sensazione di protezione animata che quel picchiettare in superficie rende ancora più intima. I movimenti sono lenti e fluidi, il mare appena mosso è oleoso e caldo. Il suono si disperde in tanto spazio, si espande in grossi cerchi concentrici. Jiiiii ha un’attività onirica molto intensa. È piccolo, dorme molto. I suoi sogni sono inconsapevoli; contengono l’abisso, la vicinanza della madre che è in realtà parte stessa di lui. Naturalmente Jiiiii non crede nel destino. Per la verità neanche ha la consapevolezza completa di sé stesso. Impossibile possa concepire o meno un disegno nell’ambiente dove è contenuto, dove, inspiegabilmente, da un momento all’altro, ha cominciato a esistere.
di Sura Bizzarri
UNA SAGOMA sottile, una silhouette che saltella sull’orlo del tramonto e dell’alto muro, al di là un colle di lapidi, bianche, monotone, tutte uguali, riverberate e striate di arancione. Il primo brivido della sera, dopo una giornata calda che non ha mai allentato la presa. Il ragazzino si muove come un felino, in perfetto silenzio, uno sguardo al di là e uno al di qua del muro, poi avanti e dietro; il suo corpo magro e longilineo è una molla pronta a scattare, ad appiattirsi o a spiccare un salto verso il basso. Dopo un pomeriggio solitario nel bosco, a cercare sassi, a esplorare il fiume e a risalirne la corrente, l’incontro con un gruppo di sbandati, ragazzi più grandi, evidentemente ubriachi di vino e voglia di trasgredire. Lui neanche li conosce, quei ragazzi, lui è solo un pretesto per permettere loro di esercitare l’impudico mestiere della sopraffazione. Ogni gesto del ragazzino, ogni espressione del suo volto, ogni suo tentativo di andarsene sono derisi e bloccati dal gioco crudele del gatto col topo, presa allentata per esser subito rinforzata. È la festa del paese, la più bella sera dell’anno, i colori del giorno si smorzano mentre i suoni cominciano a salire; bimbi che si rincorrono per strada, musica sparata dagli altoparlanti, ragazzi che gridano e vecchi che imprecano giocando a carte.
di Sura Bizzarri
MI E’ SEMPRE piaciuto il disegno geografico che veniva a formarsi sul pane quando la sua mano vi versava olio e aceto; ogni volta una cartina diversa di terre che emergevano da mari ghiacciati, o atolli pacifici come piccole protuberanze nei mari del sud. Quelle mani, lentamente, ma inesorabilmente, son diventate inutili, guidate da pensieri cupi che non riflettevano più il progetto comune. La pelle liscia e luminosa si è seccata e consumata, fino a far risaltare le vene gonfie. I gesti circolari son diventati aguzzi e taglienti, la dolcezza si è tramutata in impazienza e quando ho alzato la testa per guardare nei suoi occhi vi ho riconosciuto inequivocabilmente la voglia di scappare. Ogni cosa ha un inizio e una fine. Così, giorno dopo giorno, la sua intera figura è diventata amorfa, impersonale; i confini del suo corpo, prima precisi e netti, son diventati aleatori e fluttuanti e la sua stessa immagine ha cominciato a sbiadire, a impallidire e regredire, a farsi piccola e inconsistente, a non riflettere più tutta la forza e l’entusiasmo e la smania della carne, a non considerare più il mio corpo e tutta la storia e la vita che vi è scorsa e che abbiamo condiviso.
di Sura Bizzarri
SAYOKO veniva da Osaka. La sua famiglia si era trasferita a Roma e lei, sedici anni, aveva dovuto seguirla. Al liceo Leopardi aveva incontrato Viola. Il primo giorno, nella confusione della scelta dei banchi, si erano sedute accanto e lì erano rimaste. Non che si fossero piaciute subito, erano piuttosto indifferenti l’una verso l’altra. Entrambe erano nuove a quella scuola e l’attimo dell’entrata, l’attimo in cui fra le spinte di chi era in coppia, di chi voleva stare in fondo, di chi preferiva posizionarsi da un lato aveva deciso per loro, spingendole accanto. Sayoko era tipicamente orientale; a Viola pareva un tantino fredda. Parlava a malapena italiano e faceva fatica a seguire la lezione. Gli altri alunni già frequentavano quella scuola, già si conoscevano. Loro erano in disparte, le nuove arrivate, le più invisibili, le più silenziose, le più bambine fra le ragazze. Fu la prof di italiano a chiedere a Viola di seguire Sayoko, dopotutto abitavano nelle vicinanze. Durante un pomeriggio di compiti nella bella casa di Sayoko, su un passaggio di Socrate particolarmente impegnativo, Sayoko sfiorò Viola. Fu un gesto dettato dalla noia, dal bisogno di fuggire dai libri per entrare nella vita, un gesto inconscio che esprimeva vitalità, insofferenza, ma anche sensualità. Fu un tocco impercettibile; i polpastrelli appena tiepidi sfiorarono il collo di Viola e vi si soffermarono, titubanti e insieme decisi. Tum-tum-tum, tumtumtum.
di Sura Bizzarri
NEL REPARTO di medicina dell’ospedale c’era una calma idilliaca. La luce filtrava dalle grosse vetrate come un miracolo, un miracolo di vita, ogni giorno. Gli infermieri non avevano fretta di spostare i degenti, li voltavano con calma, assecondavano pazientemente i loro movimenti stanchi, antichi. Su tutto regnava quella luce onnipotente, la luce che varcava i secoli, che trapassava le tende leggere senza irritare quelle fessure sottili tra le pieghe della pelle che erano gli occhi dei pazienti. Nel reparto, fra lenzuola, asciugamani, detergenti, traverse, vecchi occhiali, dentiere e bastoni viveva un angelo, ignorato da chiunque, libero come la luce del sole. Era un angelo buono, un angelo giovane, ancora sincero, puro, oscuro alle gelosie, alle cattiverie, al rancore, alle bruttezze della vita. L’angelo non poteva fare a meno di vedere in ognuno di quei volti sdentati, ossuti, di quelle teste canute, di quei corpi consunti e provati un bimbo cresciuto. Innegabilmente ognuno di quei corpi consumati dalla vita doveva esser stato un bimbo e l’angelo sentiva di doverli proteggere, così come avrebbe fatto la loro madre, se solo fosse stata vicina. Ogni sera, dopo che tutti erano andati a letto, l’angelo passava camera per camera a soffiare la vita dentro le bocche semiaperte dei pazienti quasi addormentati.
di Sura Bizzarri
POICHE' oggi fa molto caldo e non ho premura, voglio concedermi un giorno di pausa dal lavoro. L’aria è spessa, pesante sulla pelle, potrei socchiudere le persiane e distendermi sul letto, al solo contatto delle lenzuola fresche. Ma voglio uscire e non riesco a rinunciare all’amica di sempre, colei con la quale condivido il mio lavoro e tutta la mia vita. Inforco la bretella della Nikon ed esco. Poiché non ho voglia di incontrare amici, la mia direzione è il parchetto antistante la stazione ferroviaria, per mescolarmi a passeggeri anonimi e ai ragazzini fra le altalene sgangherate. Poiché ho deciso di non lavorare userò la mia Nikon come puro esercizio di stile fotografico, come occhio della curiosità, a completa disposizione del mio senso estetico. Pensieri non ne ho; solo idee sparse che rimbalzano nel vuoto interiore. I miei occhi sono obiettivi alla ricerca di forme e suggestioni. Poiché sono fermamente convinto che una buona foto può nascere nel luogo più anonimo, mi siedo sulla vecchia panchina in ferro battuto corrosa dal tempo e attendo, attendo passi, suoni che dirigano il mio sguardo, movimenti degni di attenzione; cose portate dal vento, gambe che scendono sulla banchina, freni lucidi che stridono o opachi e cupi e sferraglianti. Qualche scatto, per prendere confidenza col luogo, per calcolare le inquadrature, le forme geometriche che possano dare movimento e profondità all’inquadratura.
di Simona Priami
UN THRILLER di ambientazione storica con un intrigo accattivante e originalissimo, un giallo dalle tinte forti, un noir dalla scrittura avvolgente e irresistibile, un puzzle investigativo fatto di infiniti tasselli, tutto questo è in Morte di una sirena, romanzo del 47enne danese Thomas Rydahl Kaczynski, che ha riscosso il pieno consenso da parte della critica e un successo in crescendo da parte del pubblico. Leggendolo, colpiscono subito anche le eccellenti descrizioni che investono tutti i sensi, in modo particolare l’olfatto, e costringono il lettore a immergersi in una realtà difficile, spesso putrefatta e maleodorante. Siamo nel 1834, in una Copenaghen dark, fascinosa ma pericolosa, tetra e molto diversa dal nostro immaginario, in un quartiere malfamato che ricorda la magistrale penna di Charles Dickens, luogo pieno di mendicanti, ladri e delinquenti di ogni genere, prostitute in estrema miseria che subiscono continue angherie, una realtà che appare senza speranza, senza possibilità di riscatto, un mondo dove dominano ingiustizie e i poveri hanno pochissimi diritti. Qui vive Anna con la figlia di sei anni e la sorella Molly, la piccola non esce mai dal quartiere; Anna vende il suo bellissimo corpo da sirena, riceve fino a tarda notte uomini spesso ubriachi che non conoscono neanche il suo nome, la prendono e basta; le due giovani donne sognano di andarsene da quel tugurio, guadagnare qualcosa per una nuova attività onesta, cambiare vita, dare speranza alla piccola.
di Simona Priami
COLPISCE SUBITO l’originalità di questa storia molto dolce, Quel che si vede da qui, ironica, ma anche tormentata, capace di toccare tutte le sfere sensoriali e percettive del lettore. Il romanzo, scritto dalla tedesca 48enne Marianna Leky, racchiuso in una struttura altrettanto originale, cioè una fiaba collocata in un tempo moderno, ma non definito, racconta la vita in un villaggio isolato e situato in una regione tedesca, detta Bosco Occidentale; una storia delicatamente descritta dalla perspicace protagonista Luisetta che, nel corso della narrazione, da bambina diventa donna; un romanzo scorrevole e brillante che racchiude vari generi letterari dalla fiaba, all’avventura, alla formazione: la protagonista infatti, messa di fronte alle esperienze della vita, reagisce modellando la sua personalità. L’incipit è molto particolare. Con un linguaggio semplice e lineare viene descritto un sogno terribilmente premonitore, la saggia Selma, nonna di Luisetta, sogna un okapi, un animale mansueto ma che rappresenta la morte, il segnale che qualcuno doveva morire nel villaggio. Inizia così questa storia, un’immersione in un mondo incontaminato, naturale, incantato, ma mai stucchevole o eccessivamente sdolcinato, anzi spesso ancorato alla realtà e ricco di simboli e messaggi.
di Simona Priami
UN'IMMERSIONE nella terribile realtà del ‘600, ma con aspetti ironici, noir e surreali; un romanzo storico, ma con sfumature fiabesche, un mondo fatto di saltimbanchi, villaggi sperduti, boschi, avventure, torture e ghigliottine, re, teatri e boia. Una realtà confusa devastata dalla guerra, dalla follia e dalle malattie, dalle ingiustizie sociali, dai soprusi, dai mercenari capaci delle peggiori crudeltà. Un popolo spesso ignorante che prega Dio, ma crede anche negli spiriti antichi dei boschi, nei draghi e nelle streghe. Così si presenta Il re, il cuoco e il buffone, la storia immaginata dalla fantasiosa penna di Daniel Kehlmann, giovane scrittore tedesco ormai noto e apprezzato dalla critica. Il romanzo inizia in Germania, in un piccolo villaggio isolato dal resto del mondo e protetto dalle mura. Sono fortunati gli abitanti, perché la devastazione bellica da loro non è ancora arrivata; fuori, infatti, infuria la guerra dei Trent’anni, devastatrice impietosa; loro pregano molto affinché non arrivi, pregano Dio ma anche gli spiriti del bosco. In questo luogo sperduto si fermano raramente anche i mercanti, ogni tanto arriva l’esattore delle tasse e si stupisce di trovare ancora qualcuno vivo.
di Simona Priami
SIAMO a Napoli, l’amata città di Maurizio De Giovanni, sempre più luminosa e variegata, profumata, bella ma complessa, durante una limpida e fiorita primavera, sono i difficili anni del Fascismo; il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, personaggio introverso e solitario, si trova ad affrontare un altro caso delicatissimo, difficoltoso e singolare; vicino al luminoso mare partenopeo, viene trovato un cadavere barbaramente ucciso, una scena straziante: la vittima è un anziano prete, amato da tutti, Angelo, di nome e di fatto, un teologo, uno studioso, un confessore amico di tante persone, anche quelle importanti e nobili, personaggio vicino a tante famiglie anche quelle in vista, anche quelle che contano, ma che nascondono oscuri segreti. Il commissario è ancora costantemente torturato dal suo terribile segreto, egli ha spesso le visioni dei defunti di morte cruenta, sono fantasmi che chiedono aiuto, possono apparire quando vogliono, gridano, si muovono e parlano, ripetendo frasi enigmatiche ma significative, legate al momento del distacco dalla vita, un messaggio reale, ma da decifrare; possono essere bambini, ragazzi, donne, uomini, vecchi; sono spesso squartati e sanguinanti.
di Simona Priami
DOPO la stupenda trilogia, arriva Le nostre anime di notte, romanzo breve di Kent Haruf (1943 – 2014), uno degli scrittori americani più letti negli ultimi anni in Italia, maestro ormai indiscusso che, come al solito, ambienta la storia nella sua amata Holt, un’immaginaria città di provincia nel Colorado. L’autore presenta una trama dolce e molto originale, sicuramente fuori dagli schemi: due anziani vedovi, vicini di casa, decidono di incontrarsi la notte, dormire insieme, nella solita camera, nel solito letto e al buio, parlare, raccontare il proprio vissuto, descrivendo gli affetti, le ambizioni, gli errori commessi, le sofferenze, le perdite subite, i lutti, le solitudini, le gioie e le paure. Nel cuore della notte, nel centro dell’America, nelle pianure steppose e deserte, tra le montagne impervie e rocciose, due vecchi parlano e due vite, a sprazzi, emergono dal passato. Parlare, semplicemente parlare, diventa per loro terapeutico, gesto catartico e liberatorio; il raccontare è all’origine della letteratura, è sempre esistito fin dall’infanzia del genere umano, anche nella nostra epoca tecnologica e frenetica, l’essere umano sente il bisogno irrefrenabile di raccontarsi, liberamente, senza vincoli di tempo. I due protagonisti, Addie e Louis, sono felici grazie a questi incontri, ma ad Holt, ancora legata a una mentalità di provincia, questa anomala situazione è vista e chiacchierata; a loro non importa perché stanno bene, soprattutto non importa a Addie; è stata lei a prendere l’iniziativa e desidera continuare.
di Simona Priami
PER CHI AMA le trame coinvolgenti e i thriller psicologici dalle tinte fosche, Alafair Burke propone questo avvincente romanzo (Non dire una bugia), scritto con stile scorrevole e magistrale. Il lettore, fin dalle prime pagine, viene totalmente immerso nella confessione di una donna che in un blog parla di una violenza, sia fisica che psicologica, subita tanti anni prima, ma che, rimasta indelebile, è tutt’ora traumatizzante e capace di influenzare il vissuto di chi scrive. A questa confessione-sfogo seguiranno frasi di comprensione, commenti, opinioni, ma successivamente anche minacce anonime molto incisive e preoccupanti. La particolare struttura del romanzo alterna questi scritti a una complicata vicenda che inizialmente sembra non avere legami immediati con la violenza descritta dall’anonima blogger. La storia si svolge a New York, la città dei sogni e delle grandi aspettative, metropoli che viene ben descritta, citando strade, torri, grattacieli, strutture, uffici; scenografia perfetta per un noir che inizia in uno dei quartieri più prestigiosi ed elitari della grande mela. Julia Whitmire, studentessa sedicenne, figlia di una benestante e apparentemente benpensante famiglia newyorchese, viene trovata morta nella vasca da bagno della sua abitazione; Julia era nuda, l’acqua rosa chiaro, il sangue era uscito dal polso sinistro, il rasoio era caduto nella vasca; nei cassetti, costosa biancheria; anche dal cadavere era evidente, la ragazza si induceva il vomito, segno indiscusso di disturbi alimentari.
di Beatrice Beneforti
FIRENZE. Ieri sera sono andata Villa Romana, a Firenze, a vedere questo film sul Festival FAME di Grottaglie (Ta) e devo dire che c’era un pubblico variegato. Era tutto pieno, intanto, e poi c’era anche il regista, nonché protagonista, del film, Angelo Milano. FAME FESTIVAL a Grottaglie è stata una cosa pazzesca. Angelo, sedicente mammone, dopo essersi laureato a Bologna, è tornato subito a Grottaglie ed è partito, con i suoi colleghi a spaccare roba in giro per la città. Prima distruggevano porte, pianoforti e strade in città, poi, quando le cose hanno iniziato a prendere una brutta piega, si sono ritirati in campagna per un po’. Angelo diceva nel film, e anche durante la discussione post-film, di farlo esclusivamente per soddisfare il suo bisogno di divertimento e ha iniziato a chiamare artisti da tutto il mondo per pittare, dipingere, decorare un muro a caso del territorio di Grottaglie e, soprattutto, per creare performance che legassero la collettività all’arte. L’intenzione ufficiale era quella di creare una sensazione di tensione e del confronto attivo con i grottagliesi. All’inizio, infatti, ci è riuscito, anche troppo: poliziotti che li cacciavano, Comune che cancellava le opere con i soldi pubblici, grottagliesi che non capivano. Se ne sono andati in un monastero abbandonato in campagna per aspettare il momento giusto per tornare a creare del panico in città: quel momento è arrivato presto e hanno fondato FAME FESTIVAL.
di Roberto Luti
LIVORNO. Non ho molto da dire. Ho affrontato il distanziamento e le restrizioni serenamente, lavorando in casa, confidando nella musica, che è sempre, per me, una valvola di sfogo, un compagno, un mezzo con il quale affrontare e uscire dalle situazioni. Mi astengo dall’esporre le mie opinioni politiche, economiche e logistiche sulla gestione dell’emergenza. Sono passato dall'appoggiare teorie complottiste ad apprezzare l'operato dei governi e viceversa, e ritorno da capo, e tutto ciò che sta nel mezzo. Semplicemente le mie idee me le sono fatte, ma non sono mature, troppo presto, e lascio risposte e chiarimenti alla storia, agli esperti e ai prossimi sviluppi. Sono contento che l'ambiente e la natura ne abbiano guadagnato e spero ci serva da lezione. Noto che le persone abbiano lottato tutte insieme unite contro un nemico comune. Ma fondamentalmente il popolo è da sempre unito in lotta per la propria affermazione e pane quotidiano. Sono sempre stato bene da solo e non ho avuto problemi. Ho notato come le persone a inizio distanziamento si siano cercate affannosamente attraverso i social media, per poi rilassarsi, come abituarsi alla nuova condizione. Temo questa abitudine, l’abitudine a non aver bisogno del prossimo, di un confronto o una condivisione. Temo che abbiamo imparato ad aver sospetto del vicino.
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di Irene Betti
PISTOIA. Durante questa quarantena ho smesso di bere caffè. Mi sono così rilassata che sono riuscita a liberarmi della mia dipendenza preferita. Premetto che sono molto dispiaciuta per tutte le persone che sono state male, che sono morte e di tutti quelli che stanno finendo sul lastrico. Girano tante opinioni: c’è chi crede che siamo in uno stato pandemico a tutti gli effetti, c’è chi vede un grosso complotto in uno stato di dittatura. Io ho deciso di informarmi meno possibile. Le sfumature delle varianti potrebbero esplodere nella mia testa tanto da diventare una vera e propria fiction. Ma è una storia che non mi interessa. Parlare del degrado del genere umano mi porterebbe via solo energia buona. Io sono dalla parte di chi cerca la bellezza. Le informazioni dilagano e sembra che siamo in preda a uno stato di terrore. Per quanto mi riguarda non è cambiato poi un granché. Le oscenità hanno sempre popolato la storia: si pensi allo sfruttamento, al commercio di organi, alla tortura, al mobbing, alla prevaricazione. Ma semplicemente non se ne parla. Parlare di pandemia e economia mi annoia, non perché non riconosca il problema in sé, ma perché ancora una volta l’essere umano mi risulta deludente. Non mi interessa cosa può fare l’uomo di deludente; a me interessa quello che l’uomo può fare di grandioso.
di Mario Menicagli
LIVORNO. È piombato su di noi, forse non proprio inaspettatamente, ma con un impatto imprevedibile anche per i più accaniti pessimisti, questo periodo della nostra vita che ci ha costretto a cambiare rotta, che ci priva di gran parte del calore umano, della luce del sole, delle nostre attività fondamentali, ludiche o professionali ma che, come ogni situazione anomala, può darci spunti di grande riflessione. Da più di quaranta giorni vivo, come molti, in perfetta solitudine nella mia casa nel pieno centro cittadino facendo i conti con una quotidianità fino ad adesso per me ignota; serate in casa (da due anni e mezzo non ce ne passavo una che fosse una), totale assenza della linfa vitale degli eventi calcistici, impossibilità di vedere amici, parenti e conseguente impossibilità di svolgere gran parte della mia professione. Ad essere sincero, non ho mai dedicato un minuto di questo periodo a imprecare sulle personali conseguenze economiche, professionali e sociali che la situazione mi ha portato e nella quale probabilmente mi trascinerà. Troppo forti le immagini e le dolorose notizie che giungono per dedicare il mio pensiero al mio limitato e piccolo orticello. E neanche un minuto ho dedicato a seguire teorie complottiste o anticomplottiste di affermati o sedicenti virologi o economisti.
di Dora Donarelli
PISTOIA. Chi sono? Una superstite? Una nuova sensazione mi invade spesso quando ascolto, ormai da più di un mese, quei numeri strani abbinati alla sofferenza, alla morte, al sacrificio generoso di anime buone. Che fare? Vivo in un posto dove il verde, la luce, i profumi abbondano; posso muovermi, fare le cose di sempre o quelle che avrei voluto fare in passato e magari faccio poco ugualmente. Che cosa è cambiato? Che cosa cambierà? Qualcuno si è accorto che ci sono energie infinite in noi e che forse non le abbiamo mai usate nella direzione giusta? Qualcuno scopre la sua fragilità, la sua impotenza? Qualcuno ricorda un miracolo che un amico un giorno ha fatto per lui? Qualcuno è fiero di sé per quell’amore che ha saputo vivere intensamente? Qualcuno non si sente solo perché ha persone con lui e qualcuno si sente solo anche se ha persone con lui. Qualcuno ha paura? Io no. Ho incontrato tanti che si sono fatti scappare le opportunità che la vita propone. Siamo sordi spesso alle emozioni che ci riempiono, vittime di schemi scoperti e raccontati da altri. Questo è uno dei momenti nei quali l’intensità della vita vissuta riaffiora.
di Valentina Banci
PRATO. Qualcuno di grande con cui ho lavorato a lungo diceva: chi non ha TEMPO prenda TEMPO. E chi ne ha troppo mi chiedo oggi? Lo rincorre come me o lo lascia rotolare giù dal balcone? Per natura non mi dispero mai anziTEMPO e da attrice sono abituata a vivere di progetti che non riescono mai a guardare più in là di qualche mese, e credo che nessuno fosse preparato meglio di un attore ad affrontare l’orrore del vacuo a cui ci ha costretto questa emergenza; e forse è per questo che non ci siamo impiccati in massa quando hanno chiuso da un giorno all’altro teatri e luoghi di rappresentazione cancellando improvvisamente il nostro presente e il nostro avvenire e senza nessuna sicurezza, a oggi, che qualcosa possa, forse, un giorno (chissà), essere recuperato. Lì per lì ho pensato che sarebbe stata necessaria molta pazienza, buona volontà e quella dose massima di fatalità in me contenuta di cui mi ha costretta a fare incetta la vita. Così.
di Gabriele Masiero
PISA. All’inizio, per chi come me fa il cronista da tutta la vita, l’epidemia era soltanto un’altra storia di cronaca. Magari non uguale alle altre, ma scuramente simile a tante altre emergenze di cui è capitato di scrivere. Tanto più se, come me, lavori per l’ANSA, un’agenzia di stampa che non si ferma mai, 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno ed è considerata una delle fonti primaria di informazione anche per tanti altri colleghi. Ma il lockdown, le misure restrittive, questa specie di coprifuoco sanitario no, questo non lo avevamo mai raccontato. Noi che la guerra l’abbiamo studiata a scuola e il dopoguerra (e le sue macerie) l’abbiamo conosciuto attraverso gli occhi e i racconti dei nostri nonni, siamo stati catapultati in un ruolo sconosciuto. Con in tasca (oltre a penna e taccuino), l’autocertificazione che autorizza il servizio di cronaca ovunque e comunque. Pisa, dove lavoro, e la sua provincia, non sono le zone rosse di Lombardia e Veneto. Eppure in un attimo questa città, abituata a brulicare di turisti e studenti fuori sede, si è spenta. Svuotata. Il chiasso che animava le notti di movida (e malamovida) è svanito. Il silenzio spettrale di piazza dei Miracoli, una delle meraviglie di questo pianeta, è una sensazione che si fa fatica ad accettare.
di Alessandro Gonfiantini
PISTOIA. Sono da sempre tra quelli che restano a guardare gli altri partire. Ma parte anche chi resta. Ammaestrato ad avere a che fare più con le assenze che con le presenze. Quindi, per quanto mi riguarda, io, Anafranil e il dottore che non mi risponde mai al telefono, siamo anche in troppi. Il dottore che non risponde mai al telefono è una sicurezza, uno dei pochi punti fermi nella vita, nella vita di ognuno. Tutti hanno un dottore che non risponde mai al telefono. Nessuno è così solo da non avere nemmeno un dottore che non risponde mai al telefono. Il mio è affidabilissimo, e la prima volta che mi risponde, giuro che lo cambio. Tutte le sere, all’ora del marinaio, passa un dirigibile in cielo con su scritto Quella volta che hai appoggiato la testa sulle ginocchia di Margherita come uno stupido e basta…come uno stupido e basta. Passa tutte le sere. Mia madre dorme piano come una bambina. Un giorno uno di noi due non ci sarà più e l’altro continuerà ad apparecchiare per due. Devo molto a questa pandemia, che mi ha trasformato da asociale depresso rinchiuso in casa a cittadino modello. Come il mare quando piove; non mi bagno.
di Olimpia Capitano
LIVORNO. I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state in egual numero pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono sempre impreparati (…) I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. (Albert Camus, La peste, 1947). In questa fase di necessario distanziamento sociale, clausura un po’ volontaria, un po’ forzata, emergono tante riflessioni, a partire da quelle relative alla situazione politica attuale, alle condizioni sistemiche, ai timori che si celano dietro echi biopolitici, ai rischi involutivi futuri (il nazionalpopulismo si nutre delle retoriche che stanno permeando il discorso politico attuale), alle speranze per una svolta che sradichi la visione del mondo neoliberista; una svolta faticosa e lunga, lunghissima, che però potrebbe prendere atto, avviata da un passaggio evidentemente critico e dal contemporaneo emergere di spinte sociali che chiamano verso quella direzione.
di Tommasa Cubeta
MESSINA. Vivo in una città bagnata dal mare e protetta dalle montagne nel profondo sud: Messina. In questo momento non è più la stessa; le strade deserte, i negozi chiusi, la gente barricata in casa, tutta unita da un comune denominatore: il bene collettivo. Si respira un clima surreale, ma c’è una particolarità che la distingue in questo frangente delicato: è il suo Sindaco, sì, Cateno De Luca, uomo crudo, diretto, disponibile, pronto a raccogliere le richieste più disparate della propria comunità. Un Sindaco che ha il coraggio, in clima di emergenza sanitaria, di sfidare i poteri forti e le istituzioni per il bene di tutti i suoi cittadini. Ecco, Messina può contare su una grande persona e Cateno può avvalersi del consenso e della stima dei messinesi. Il silenzio inquietante di questi lunghi giorni, oggi, viene spezzato dallo scroscio della pioggia. Chiusi nel nostro silenzio, apprendiamo con tristezza la notizia del primo decesso da coronavirus. Ci domandiamo se non è troppo alto il prezzo che stiamo pagando.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. È incomprensibile tutta questa mia paura? forse sono solo stanca, non dormo più, non le conto neanche, queste notti. Ho impiegato il mio tempo in riflessioni, ho elaborato ogni mio assioma mentale, ho assimilato centinaia di post, notizie tv, cronache, ricette enogastronomiche, barzellette di ogni genere, delucidazioni più o meno attendibili sul corona virus, precauzioni, video tutorial per l’auto fabbricazione di mascherine su YouTube; cani che fanno ginnastica, cani che vengono calati dal terrazzo per fare i loro bisogni, la confusione dettata dai milioni di fake news, i concerti in mondovisione eseguiti in videochat. E poi, le lezioni di aerobica e le cose più bizzarre che mai mi sarei aspettata di vedere, come il video in cui è proprio Covid 19 a parlare, ma ho dovuto prendere le distanze, un metro esattamente o poco più, tanto per citare la normativa, o un bellissimo post di Facebook: perché un metro o poco più è la distanza giusta che c’è per guardare intorno a noi e guardare ciò che sentiamo dentro di noi.
I GRANELLI di memoria scendono, a ritmi regolari, da un’ampolla a quella sottostante. Ma restano in perfetto ordine e anche capovolgendola, la clessidra che li conserva, il risultato non cambia: tutto torna al suo posto, con straziante dolorosa precisione. L’abbiamo letto famelicamente Madre ti ho aspettato a lungo (edizioni Caracal, 14 euro), ansiosi di arrivare, in uno dei 20 capitoli del volume che battezza l’esordio letterario di Anna Adler, al point breack (anche ripensando al capolavoro cinematografico di Kathryn Bigelow, del 1991), alla resa dei conti. Niente da fare. Tutto quel dolore, cieco, immotivato, sprezzante, destabilizzante, invece, che avrebbe mandato al tappeto un qualsiasi altro nerboruto pachiderma capace di sopportare le più indicibili angherie, tra l’altro sofferte sistematicamente con chirurgica precisione e a sadici, regolari, intervalli di tempo, non è esploso e quella bambina allora vestita da maschietto, che è diventata una donna elegantemente vestita da femmina, ha deciso di raccontarlo.
DEVE AVER capito di aver scritto un capolavoro e per non umiliare oltre ogni ragionevole misura i colleghi, ha deciso di dare al proprio manoscritto un titolo oggettivamente brutto, che fa innumerevoli torti alla poesia che si respira, passo dopo passo, leggendolo. Ma Riparare i viventi (Feltrinelli) è davvero un libro indispensabile, al quale dovete per forza di cose trovare un posto di privilegio nella vostra libreria. Lo merita l’autrice, la francese Maylis De Kerengal, cinquantenne di Le Havre, balzata agli onori letterari con Nascita di un ponte (che leggeremo e ve ne daremo conto, promesso), che ha costruito attorno ad una tragedia (un incidente stradale capitato a tre giovani surfisti) una serie di microcosmi collaterali straordinari. È un’esondazione continua, costante, inarginabile: le cose precipitano di attimo in attimo e non c’è alcuna speranza di salvezza.
UN POZZO senza fine, una cascata oceanica di emozioni. Con estrema delicatezza. Non ora, non qui è il battesimo letterario di Erri De Luca. Ho avuto il piacere, tardivo, di cercarlo e trovarmelo tra le mani in questi giorni: se lo avessi letto a tempo debito, sarei stato diverso. Forse. Ho acquistato una ristampa, di Feltrinelli, con una copertina economica. Quella originale raccontava di una foto, scattata dal padre di Erri De Luca alla sua famiglia: la moglie e i loro due figli. È con questa fotografia che l’autore fa i conti. Senza farne tornare uno, naturalmente. La scenografia è quella di sempre; un po’ come i libri di Manuel Vazquez Montalban, con l’investigatore Pepe Carvalho, il suo attendente tuttofare Biscuter e la sgualdrina che gli fa compagnia e pompini. Siamo a Napoli e dai Bassi, la famiglia De Luca, superati gli stenti del dopoguerra, riesce finalmente a traslocare in un quartiere più consono al suo lignaggio: la nuova casa è illuminata dal sole, ognuno ha la propria stanza da letto e la sala da pranzo dista dalla cucina così tanto che Filumè, la governante, è costretta a servirsi di un carrello, per preparare e disfare la tavola.
UN’ALTRA estate di passaggio, ma decisiva. Non so se preceda o venga dopo le altre nelle quali sono ambientati i vari romanzi di Erri De Luca. Tu, mio, comunque, è l’ennesima perla, generazionale, asintattica, indispensabile per chi abbia almeno una volta, nella vita, amato e odiato, dell’autore napoletano, alle prese con l’isola delle vacanze davanti al Golfo di Napoli, liceale anomalo, attratto più dalla pesca che dai sensi ormonici. E poi Caia è troppo bella e soprattutto più grande del protagonista perché lui possa nutrire ambizioni. E poi c’è suo cugino, un infallibile tombeur de femme, con un fisico imponente, una naturale chimica simpatia, dignitoso strimpellatore di chitarra e per questo centro indiscutibile di attenzione nei falò notturni sulla battigia a oscurare le sue velleità.
NON FATEVI vincere dalla tentazione di sottolineare le cose che credete più importanti, leggendo un libro, che non sia scolastico. Non sta bene. Se qualcuno, dopo di voi, dovesse leggerlo, quel libro, si sentirebbe scippato da un’emozione, che voi, evidenziandola, è come se gliela aveste suggerita. E poi, con Erri De Luca, le cose da sottolineare sono così tante, che le evidenze sarebbero troppe e dunque, perderebbero senso, peso. E importanza. Il giorno prima della felicità (Feltrinelli) calza a pennello, a proposito. Il libro precede e segue, con indifferente cronologia, quasi tutte le altre storie dell’autore napoletano. Il microfono, stavolta, è nelle mani dello Smilzo, un giovanottino carne e ossa adottato da una zia e dunque sottratto ad un orfanotrofio e cresciuto da Don Gaetano, il portinaio tuttofare di uno stabile dei Bassi, che vive al di qua della sua guardiola, divisa dal cortile, dal condominio e dal mondo intero, da una vetrata e che si sostituisce, senza deroghe, impegni e responsabilità, ai genitori, mai conosciuti e senza averne mai avuto il desiderio di farlo.
NON È FACILISSIMO conservare l’obiettività. Nel bene e nel male. Quando sento il nome di Erri De Luca penso, immediatamente, per associazione di idee, al mare e alla sua profondità; alle montagne e alla loro inaccessibilità. Il contrario di uno (Feltrinelli) però, a mio presuntuoso avviso, sta un gradino sotto altre sue pubblicazioni. Un po’ troppo politicizzato; smarrisce qualche lembo di poesia, nei racconti brevi che compongono il libro, rispolverando l’acredine, spesso tragicomico, degli anni gloriosi, quelli subito successivi allo spartiacque generazionale: il 1968. Dei diciannove racconti, ai poderosi e indispensabili livelli che mi ha meravigliosamente abituato l'autore, ce ne sono solo un paio. Ma sarà capitato anche a voi - quando il termine scaricare significava, ad esempio, liberare il bagagliaio della macchina dalla spesa - comprare un Lp solo per poterne gustare un brano. Non so se l’esempio renda l’idea, ma Il contrario di uno è da acquistare non foss’altro per avere, sempre a portata di mano, in casa, la poesia che precede i racconti, l’ode di prefazione.
L’unica cosa che ci accomuna sono i lacrimogeni fumanti presi con precauzione tra le mani munite di guanti e rilanciati alle forze dell’ordine. Lo abbiamo fatto in stagioni diverse, probabilmente, ma dalla stessa parte della barricata e il gesto, i rischi e la disillusione sono gli stessi. Sono sempre stato un irrequieto, un chiacchierone, un caciarone; sono cresciuto a Roma: mio padre non è dovuto partire per gli Stati Uniti per inseguire e realizzare un sogno; mia madre lo ha aspettato e visto arrivare tutti i giorni, a pranzo e mia sorella non è stata facile, men che mai fortunata. E poi, il nome della ragazzina che mi ha battezzato al desiderio, all’amore, quella del primo bacio, seppur di puro avesse ben poco e mani men che mai vellutate, non l’ho e non potrei mai dimenticarlo. Ma I pesci non chiudono gli occhi (Feltrinelli) è uno di quei libri che ti restano appiccicati sulla pelle e nonostante con Erri De Luca, l’autore, i punti di contatto si fermino alla soglia del minimo sindacale, ho avuto la sensazione, netta, di esserne il protagonista.
Viaggio pochissimo e quando parto, lo faccio in macchina. Vivo (e viaggio) praticamente da solo: mia figlia è grande e sceglie le sue destinazioni; mia moglie è solo un ricordo, e non sempre piacevolissimo. Nella mia classe A, della Mercedes, oltre a me possono trovar posto la valigia, un borsone, il computer, la macchina fotografica e anche i racchettoni di legno: se strada facendo incontro qualcuno simpatico, gli chiedo se abbia voglia di giocare. Sono, soprattutto, presuntuoso e i consigli, più che non ascoltarli, mi infastidiscono. Leggo volentieri, ma non moltissimo; mi stanco. Solo bagaglio a meno, però, oltre che averlo divorato (beh, ci vuol pochissimo, è breve e veloce), lo consiglio agli amici, che proprio come scrive Gabriele Romagnoli, l’autore de libro (Feltrinelli), non vanno confusi con i contatti: degli ultimi ci si serve; i primi si servono. E si riveriscono. All’autore, fortunatissimo (fa quel che ha sognato, fa quel che vuole), invidio soprattutto l’altezza, ma anche le posizioni strategiche che ha coperto e copre nel mondo del giornalismo e dell’editoria.
di Marta De Sandre
Jonathan Franzen viene spesso definito il miglior scrittore americano vivente. Devo essermi persa i necrologi di Philip Roth e Cormac McCarthy! Quando ho letto Le correzioni un po' ci credevo anch'io alla nascita di un piccolo Roth, ma poi non ha più scritto nulla che mi sembrasse all'altezza. Il ragazzo scrive benino e adoro queste famiglie dai rapporti sempre conflittuali. E’ abilissimo nei salti temporali e nel dare armonia agli intrecci di storie diverse, ma in Purity le storie sono davvero troppe e tutto diventa davvero troppo improbabile.
Letterato ermetico, Erri De Luca. Le sue parole, lievi, sono puntuali macigni. Lampi che squarciano la notte, quella nella quale abbiamo deciso di voler vivere. Con due eccezioni, nella fattispecie: il re dei camosci e l’assassino di sua madre, protagonisti muti de Il peso della farfalla (Feltrinelli, ovviamente). Entrambi non sono abituati a relazionarsi con il prossimo, ma solo con il mondo che li circonda. La vita ha imposto loro di crescere da soli. E così han fatto. Sono diventati forti. Il primo è il dominatore incontrastato dei branchi di camosci dolomitici: divenne re in un giorno, al suo primo duello. Anche il cacciatore era il primatista assoluto della sua categoria: alpinista, riusciva ad arrivare dove nessun altro dei suoi colleghi, ma nemmeno i bracconieri, osavano pensare. Le loro storie viaggiarono parallele per molti anni: il primo mantenne lo scettro del proprio impero senza nemmeno dover combattere un duello; il cacciatore centrò, al primo colpo, con la sua 300 magnum e la pallottola da undici grammi, oltre trecento camosci. Nessuno come lui, con quella precisione, con quella media.
di Marta De Sandre
Conosco poche persone che non sbaglierebbero mai a regalarmi o consigliarmi un libro; di un paio di queste mi fido più che di me stessa perché io spesso compro delle schifezze che abbandono a pagina sedici, mentre i loro libri mi sono sempre piaciuti. Così mi è arrivato questo libro, Crepuscolo, di Kent Haruf, autore a me sconosciuto, ma che scopro essere famoso. Poco male: più cose ignoro e più ne avrò da scoprire. Siamo in Colorado, nell'immaginaria cittadina di Holt. La provincia americana fa da sfondo alle vite di alcune persone che si sfiorano, si incrociano, si lasciano e si riprendono come ballerini tra i vortici di polvere che ricordano la gonna di Jenny.
Come ci si può sdebitare nei confronti dei genitori? Basta una carezza – loro capiscono, eccome -; un sorriso, una parola. Ma anche quando la vita ci offre l’onerosa opportunità di ricambiare, con i genitori che decidono di invecchiare con paziente inesorabilità, a volte, si sente il dovere di fare altro. Olga Agostini, architetto impiegata al Comune di Pistoia, ha scelto di dare alle stampe questi sette racconti – e una settimana di ricette, una al dì -, Mattidallegare, per dire e scrivere come Monica, questo il suo nome trascritto sul piccolo volume edito da Porto Seguro, sia diventata esattamente quella che loro desideravano diventasse.
di Marta De Sandre
Qualche giorno fa, nel lasso di tempo che ci vuole a finire due birre medie (che dalle mie parti è davvero un periodo brevissimo), mi sono ritrovata a parlare di libri con una persona che, salutandomi, mi ha detto: leggi Cartongesso, biascicando qualcosa su Céline che non ho ben capito. Scaricato sul kindle al costo delle due birre che mi aveva offerto, per cui praticamente gratis, l'ho divorato come da tempo non mi capitava. Non serve essere veneti per capire che la storia del “magico operoso nord-est” è reale quanto il regno di Gondor, ma che qualcuno, come Francesco Maino, lo facesse in questo modo, ovvero in Céline-style, senza remissione, senza paura, senza speranza, cinico, rancoroso, sarcastico e caustico è una cosa che sconquassa parecchio.
di Marta De Sandre
La felicità è nota per la sua scarsità. Il 3 dicembre 1980 Romain Gary si sparò indossando una vestaglia di seta che aveva acquistato per l'occasione, rossa perché il sangue non si notasse troppo. La delicatezza scelta per l'ultimo gesto della sua vita non fu frutto di un ricongiungimento tardivo all'amore verso il prossimo, tipico di tanti suicidi. Romain Gary era l'essenza stessa della delicatezza: il suo stile, spesso ironico, a volte amaro, è sempre e comunque aggraziato: le sue parole scivolano lievi come gocce distillate di pura bellezza. La saggezza, questa camomilla avvelenata che l'abitudine di vivere versa lentamente nel nostro gargarozzo, col suo gusto dolciastro d'umiltà, di rinuncia e di accettazione.
di Marta De Sandre
“Perché non si dovrebbe sopportare la vita quando basta un nulla per togliervela? Un nulla la mena, un nulla l'emana, un nulla la mina, un nulla l'allontana”. Le parole servono per comunicare, commuovere, divertire, insultare. A volte (raramente) accade che una determinata frase sia semplicemente bella al pari di qualsiasi altra opera d'arte. Come un pittore gioca con i colori creando sfumature emozionanti, Queneau gioca con le parole creando pura e semplice bellezza, lasciando il lettore in imbambolata espressione di stupore in preda a quella che viene definita la Sindrome di Stendhal.
Leggi tutto: Benedetti gli scioperi, soprattutto quelli dei mezzi pubblici
di Marta De Sandre
Rep è in fuga. Fugge dal ricordo di una donna che lo ha lasciato, fugge da una città, fugge da tutto. Si perde e si ritrova mille volte perché fondamentalmente lui ama fuggire. C'è tanto amore: quegli amori finiti che si cristallizzano in una forma sublime che in realtà non hanno mai avuto perché i ricordi ingannano quasi sempre. C'è tanta musica: ci sono i Sex Pistols e i Nirvana, c'è il fantasma di Kurt Cobain che aleggia ovunque. C'è tanta confusione nella sua vita, nella sua testa, in un Sud America che finalmente esce dallo streotipo dei tempi del colera.