di Caterina Fochi
LONDRA. Cosa succede se la globalizzazione attraversa l’arte? La risposta arriva dalle 160 opere, realizzate tra il 1960 ed il 1970 da artisti di tutto il mondo, presentate nella mostra The World Goes Pop in corso fino al 24 gennaio prossimo alla Tate Modern di Londra. Se il movimento della Pop Art, in Inghilterra prima e in America poi, ha infatti sviscerato e ridicolizzato la società e la cultura consumistica occidentale utilizzandone il gergo e le strategie, con questa originale mostra scopriamo che nel resto del mondo, dall’America Latina all’Asia, dall’Europa al Medio Oriente, fu anche e soprattutto un linguaggio universale di protesta che oggi più che mai risulta attuale.
Quindi non solo Andy Warhol e Roy Lichtenstein, ma tantissimi altri artisti, spesso sconosciuti, che appropriandosi dell’estetica Pop, hanno trovato lo strumento per riflettere e comunicare le rispettive realtà politiche e sociali. Troviamo allora la guerra fredda sullo sfondo dei Post Art di V. Komar e A. Melamid, percepiamo tutta la frustrazione dell’artista polacco Jerzy Ryszard Jurry Zielinski nella bocca cucita del dipinto The smile e nella grossa lingua inchiodata di Without rebellion che condannano l’oppressione del regime comunista ancora fortemente presente negli anni ’70 in Polonia.
Davanti all’imponente Social Realism and Pop Art in battlefield del collettivo spagnolo Equipo Cronica riviviamo le contrapposizioni tra occidente e oriente ed il timore europeo di perdere la propria identità visiva sempre durante quegli anni. Vi sono poi lo stenditoio di corpi umani di Kiki Kogelnik (Austria), la moltitudine di Claudio Tozzi e le ombre dei protagonisti della storia di Sergio Lombardo, i potenti manifesti della serie American Interiors di Erro (Islanda) e il divertente impermeabile collettivo di Nicola L (Francia) e, dopo il fungo atomico che esce dalla rossissima bocca semiaperta che ricorda tanto una copertina di un famoso disco dei Rolling Stones, di Atonic Kiss di Joan Rabascall (Spagna), arriviamo sotto il gigantesco e minaccioso indice che sgocciolando sangue di I Want You del brasiliano Marcello Nitsche, ci rimanda al lontano Giappone, che senza dubbio rappresenta la scoperta più interessante di questa mostra.
Stupisce infatti come il movimento pop si sia potuto sviluppare in un paese che non aveva praticamente contatti con il resto del mondo e di come gli artisti giapponesi ne abbiano assimilato i valori per esprimere attrazione e critica verso un occidente sconosciuto e misterioso utilizzando con nuovi obbiettivi la loro più radicata, tradizionale e raffinata cultura grafica di cui Doll Festival di Ushio Shinohare ne è uno spettacolare esempio. Questa insolita mostra quindi spezza l’asse Londra-New York e colma una profonda lacuna riconoscendo, con un atto dovuto, l’altra faccia della medaglia di un movimento fondamentale della storia dell’arte internazionale che la critica ufficiale aveva fino ad oggi ignorato.