di C.F.

Meno male che Andy Warhol strappò dai muri di New York artisti come Keith Haring e Basquiat. Altrimenti, oggi, non conosceremmo il loro talento e forse le loro opere sarebbero andate perse per sempre. Premesso questo, però, la questione tra street art e istituzioni museali resta comunque molto complessa. A questo proposito sono infatti più che legittimi i dubbi che sorgono e che sono alla base delle tante contestazioni sollevate in primis dagli artisti stessi. Il passaggio dai muri ai musei equivale ad un passaggio dalla forma di protesta al business? A chi appartiene l’opera di strada? Qual è il limite tra libertà d’espressione individuale e bene collettivo? E’ giusto esibire la street art? E per quale pubblico? Con quali modalità? Che ruolo avrà il museo in questa prospettiva? Quali tracce di queste culture trasmetteremo al futuro?

 

E’ legittimo strappare le opere dalla loro sede? (a volte con autorizzazione, altre illegalmente). E se le demolizioni e il deperimento ne mettono a rischio la stessa esistenza, si deve intervenire? Gli interrogativi sono tanti e le risposte ancora aperte infiammano il dibattito che si è acceso intorno alla mostra in corso a Bologna fino al 26 giugno Street Art, Banksy & CO. L’Arte Allo Stato Urbano, al Museo della storia di Bologna ospitato nel trecentesco Palazzo Pepoli e curata da Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran (per la sezione di New York). Così, mentre i giuristi, gli storici dell’arte, gli esperti di restauro e conservazione dei beni e i sociologi discutono sulla natura e il futuro di questa forma d’arte che sembra essere la più rappresentativa della contemporaneità, a Bologna va in scena quella che è la prima e la più grande retrospettiva dedicata a questo tema, per scoprire e divulgare la storia dell’arte di strada che dalla New York degli anni ’70 e ’80 a oggi vive e comunica nelle nostre città attraverso il sovrapporsi non regolato da parole e immagini potenti. Cinquant’anni di vita e una molteplicità di forme, di nomi e di contesti etnici, sociali, politici e culturali dei quali questa mostra rende conto fornendone una visione d’insieme. Il percorso pensato dai curatori non rispetta un ordine cronologico, ma focalizza l’attenzione su alcuni temi importanti per la comprensione dei fenomeni sia del writing che della street art dividendosi in tre sezioni: la città dipinta, la città scritta e la città trasformata. Le opere esposte sono 250 e provengono da Amsterdam, Parigi, New York, Berlino, Rio de Janeiro, ma ce ne sono anche tante italiane: su tutte, spiccano quelle, tanto attese, della super guest star Banksy. Ormai noto e riconosciuto dalla critica e dal pubblico internazionale, questo straordinario artista nasce e sviluppa la sua arte a Bristol alla fine degli anni ’90 quando la fama della città inglese era legata soprattutto alla sua scena musicale e che vide la nascita del trip-hop (frutto dell’incontro tra l’hip-hop e l’elettronica). Negli anni 2.000, con il trasferimento a Londra, il giovane Banksy passa dal writing all’uso dello stancil e sviluppa un'iconografia facilmente riconoscibile popolata da scimmie, poliziotti e ratti.

In particolare al ratto è dedicata un’intera sala proprio per l’importanza concettuale e simbolica che ha la sua rappresentazione nella street art oltre che testimonianza delle radici culturali di questa variegata forma d’arte che affondano in un substrato culturale molto più ampio, dove risulta di fondamentale importanza il movimento punk che vide nascere il connubio tra arte e musica con la copertina di Rattus Norvegicus (del gruppo punk inglese The Stranglers) ad opera dell’artista Dr.Rat. Ci sono poi opere di Obey, Shepard Fairey, Ericailcane, i gemelli Ottavio e Gustavo Pandolfo (Os Gemeos) John Fakner e Don Leicht, Ron English e infine anche gli italiani, tra cui Tommaso Tozzi e al di sopra tutti, Blu. La sua storia inizia più o meno in contemporanea con quella di Banksy alla fine degli anni ’90 a Bologna. Fin da subito, con l’uso della bomboletta, sviluppa un immaginario surreale popolato da figure ibride al limite tra l’umano e l’umanoide, dominato da un’estetica da fumetto e videogames, spesso accompagnata de frasi cariche di umor nero. Negli anni successivi, la sua produzione abbandona le parole, ma lo stato d’animo resta nei suoi personaggi, che diventano uno straordinario veicolo di satira sociale e politica. Tra le sue opere esposte a Bologna troviamo riuniti i dipinti per la realizzazione di Test (Loop 1), una dei primi video in stop-motion (una tecnica di ripresa che prevede il collage di diversi fotogrammi fotografati uno ad uno) che Blu crea con una serie di wall painting che letteralmente si mangiano l’un l’altro dando vita a una sequenza animata nella quale ogni dipinto sostituisce e cancella il precedente. Inoltre non si può non menzionare il murales senza titolo strappato dalla parete di cemento delle ex officine Casaralta che come un libro pop up sembra essere il manifesto ideologico del suo pensiero e che pur essendo stato oggetto di polemiche e proteste, in primis dello stesso artista, si presenta in questa mostra come protagonista assoluto per la sua potenza espressiva e la sua straordinaria bellezza. Testimonianza questa del fatto che Blu è senza dubbio uno degli artisti più importanti del panorama italiano. Controversie a parte, tutte le opere esposte e letteralmente immerse negli spazi che ripercorrono la storia della città di Bologna (esattamente come la street art è immersa negli spazi delle città) non sono solo una testimonianza del loro valore estetico e artistico, ma trascinando con sé le scintille di un acceso dibattito tengono vivo l’interesse e lo spirito necessario all’arte per esistere e la vitalità che emerge da questa mostra è sicuramente un segnale positivo e rassicurante che accende una luce di speranza in questo momento storico particolarmente buio e difficile.

 

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