PISA. Condividiamo con piacere l’angolazione pittorica e culturale che la direzione artistica del Palazzo Blu, di Pisa, ha scelto di dare alla sua nuova esposizione: Dalì, il sogno del classico (1 ottobre – 5 febbraio 2017). Perché non si può continuare a etichettare l’inimitabile artista catalano soltanto come il più stravagante e visionario pittore non solo del secolo precedente, ma di tutta la storia dell’arte visiva. Salvador Dalì è stato anche e soprattutto uno scrupolosissimo e profondo conoscitore del Rinascimento e solo attraverso uno studio tanto meticoloso di quei floridi due secoli e mezzo e dei suoi più illustri rappresentanti (Michelangelo, Dante e Cellini su tutti) ha potuto trainare la propria esuberanza fino a trasformarla nella testa d’ariete dell’arte contemporanea. Salvador Dalì insomma non è solo quello celebrato nell’alta Costa Brava, da Portlligat fino a Figueres, passando per Cadaques, le zone dei suoi natali, né quello all’insegna di una stravaganza figlia anche di eccessi stupefacenti, come non si può circoscrivere alle sue esperienze giovanili di massimo impegno civile e politico.

 

Il Dalì che ci consegna la mostra pisana è quello dell’ultima fase, che risente, insindacabilmente, di tutti gli influssi precedenti, ma che si apre a nuovi orizzonti e ci svela, anche attraverso inediti, un febbrile studioso dei classici, un rigoroso applicatore di tecniche e geometrie, un intransigente lavoratore e da ultimo, ma non per ultimo, un uomo che deve parte della propria ispirazione e magnificenza alla dona che lo ha seguito nel tempo, Gala. L’attenzione, manicale, allo scritto divino di Dante, l’intransigente riverenza agli schemi del Buonarroti, la devozione verso il padre rinascimentale, Benvenuto Cellini, i farneticanti riferimenti a Raffaello e al Perugino sono, nell’esposizione del Palazzo Blu, una semiretta che si discosta, autorevolmente, dalla bisettrice canonica degli studi su Salvador Dalì e ce ne offre un’immagine del tutto originale, assai lontana dagli stereotipi che ne hanno contraddistinto soprattutto la storia tramandata. Senza comunque mai prendersi troppo sul serio: la sua profonda conoscenza delle materie trattate è sempre stata offerta, ai suoi studenti e studiosi e al pubblico eterogeneo che lo ha, da subito, iconizzato, con un velo di profonda e frivola ironia, come il catalogo (presente al Palazzo Blu) che accompagna gli acquerelli della Divina Commedia alla mostra parigina del 1960: Voglio che i miei acquerelli per Dante siano come le lievi tracce d’umidità su un formaggio divino, abbiano la lucentezza screziata delle ali di una farfalla. Ma con tutto il più profondo rigore degli studi e della conoscenza, che fanno da specchio al suo iperbolico dalicentrismo, quando, oltre che inorgoglirsi per specchiarsi trionfalmente ogni mattina e riconoscersi inconfondibilmente in se stesso, raccomanda agli allievi delle scuole future di imparare a disegnare proprio come i loro insegnanti, condizione questa che consentirà loro, mantenendo inalterati stima e rispetto, di potersi sbizzarrire altrove.

 

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