LIVORNO. Poco prima dell’arrivo di alcuni tir pronti per imbarcarsi verso la Corsica, alla Fortezza Vecchia di Livorno, al porto, l’unico suono percettibile e adorabile è quello dei gabbiani. Sotto, in uno stato di tacita cordiale coabitazione, Claudia Caldarano (che è anche autrice) e Lisa Labatut, proprio per non infastidire un secolare habitat, seppur adeguatosi alle impellenze commerciali e turistiche, cantano la propria deformazione genetica postatomica, anche se lo fanno Sul nascosto. Danzano, i due esseri deformati da esperimenti, sulle note di suoni (Valeria Sturba) percettibili in quelle zone di Foresta svendute al Capitalismo, dove solo esseri geneticamente pronti a tutto, pur di sopravvivere, riescono ancora a resistere. L’elemento più scabroso è rappresentato dai volti rovesciati (Eugenio Casini) a centoottanta gradi, che hanno trasformato rane, cavallette e libellule in esseri deformi, costretti a deambulazioni innaturali.

Virgilio Sieni, che coproduce lo spettacolo, concorderà con noi che più che La democrazia del corpo, in verità, queste due strutture organiche sono state ingerite dall’anarchia, che invece che liberarle da sistemi e schemi, le ha trasformate in paurosi baracconi da circo, fenomeni mostruosi in grado di spaventare chiunque, se non intervenisse, costantemente, l’armonia, a riequilibrare tutto e trasformare aborti in parti meravigliosi. Sul palco, spoglio di ogni orpello, le due anime meravigliose cercano riparo da nuovi eventuali cataclismi, senza comunque rinunciare a ricordare chi fossero e quanti sogni avessero. Provano a raccogliersi, dunque, si spianano, beate e specchiano, nel loro cuore vasto, le loro povere vite turbate. Le luci (Simone Mancini) sono funzionali, quanto basta, a delimitarne i contorni, di Claudia e Lisa, senza però svelare le loro fisicità, le loro identità, che si sono adeguate alle ripetute esplosioni succedutesi su quell’isola una volta incontaminata, ora preda di esperimenti e scoop pubblicitari. L’armonia e l’eleganza però sono ancora integre e tra un boato e il successivo, tra un ciak e un altro, le uniche due sopravvissute riescono a esprimere tutta la loro grazia, la loro immensa elasticità, nonostante il destino le abbia volute mutilare. Pittura barocca e fotografia multimediale, esercizi elementari di equilibrio e poesie asettiche si insinuano in quel che resta di questi corpi martoriati di lucertole che credevano, sbagliandosi, di poter restare, tutto il loro tempo, ferme al sole. Le luci si accendono, anche se non sarebbe dovuto accadere; Claudia e Lisa raccolgono, ancora al contrario, gli applausi. La scena, ora, se la prende Luna Cenere, un’adolescente napoletana che ha già compiuto trentuno anni, che scrive e interpreta il suo Kokoro. Gli esperimenti sono terminati; la location serve ad altro, ora. Cambiano le musiche (Gerard Valverde), come le insinuazioni luminose (Gaetano Battista), ma non la bellezza, i decibel dell’armonia, la grazie e il pudore della nudità, la maestosità del corpo, in tutte le sue declinazioni geometriche, sintattiche, poetiche. I gabbiani, sopra la fortezza, hanno cessato di rincorrersi. I tir, si sono imbarcati, la giornata sta per finire. Il quartiere Venezia, attiguo alla Fortezza Vecchia, ha già riposto i remi nell’imbarcazione, senza nemmeno concedere il tempo agli spettatori del Deep Festival di brindare al doppio successo.

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