di Olimpia Capitano
PRATO. Dall’8 settembre al 1° novembre il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, a Prato, ospita la prima personale in un museo del fotografo Jacopo Benassi, con la mostra Vuoto. Il titolo è contraddittorio rispetto a quanto appare nella sala adibita all’allestimento, dove un cumulo di oggetti ti accoglie e dove corridoi di immagini diverse e di impatto cruciale ti catturano e investono emotivamente. Il titolo però richiama il contraltare di tutto ciò, ossia il mettersi a nudo dell’autore, il restare vuoto attraverso la scelta di un esporsi che è totale (molte anche le rappresentazioni intime dell’autore e dei suoi amanti) e di una crudezza viscerale. Benassi fotografaba partire dagli anni ’80 nella scena underground spezzina, tanto che la sua prima fotografia è stata scattata in un centro sociale a un gruppo punk e questo episodio va rammentato non come curioso aneddoto, ma come linea conduttrice di un tipo di sensibilità e di visione del mondo che accompagna lo sguardo dell’autore in tutta la sua indagine e nella lettura dei soggetti di una variegata realtà umana. Quanto è colto e restituito dall’autore, prende forma attraverso una lente originale e personale che si struttura principalmente su due piani: uno più strettamente tecnico, l’altro più sostanziale.
Anzitutto, per quanto riguarda la particolarità della scelta tecnica, occorre sottolineare come la luce del flash venga utilizzata per annullare la profondità di campo, divenendo una sorta di firma autoriale, intrecciata a una chiara presa di posizione: vuole essere usata per annullare la luce reale, fermare momenti, volti e dettagli in tutta la loro durezza e potenza e dando un senso di insolita disintermediazione. In questo modo l’uso del dispositivo fotografico sembra annullare paradossalmente la dimensione del media e avvicinare l’osservatore ancora di più ai soggetti che, prima che apparire come ritratti, sembrano essere materia viva fissata nell’immagine: c’è una patina estraniante di surrealtà che spinge a scendere in profondità e a scrutare più nitidamente tra le tensioni conflittuali che emergono dal vissuto intrappolato in questi scatti, con un certo (apprezzabile) cinismo, quello di uno sguardo concreto nel penetrare quanto c’è di vivo. Per quanto riguarda i contenuti, invece, l’aspetto che più emerge è quello della resa esplicita di un intersecarsi di contraddizioni: a prescindere dal soggetto specifico rappresentato, l’artista risulta capace di renderne il dualismo, tra la rappresentazione di un aspro realismo, duro, rigido e pregno di malessere individuale, disagio personale e marginalità sociale, e una dolcezza enorme negli sguardi o più semplicemente nelle comuni condizioni di irrisolutezza, caoticità e sopravvivenza umana. Sopravvivenza, vita veloce, conflittualità con sé stessi o con una socialità che ingabbia in ruoli predeterminati culturalmente: tutto questo trasuda da figure poco estetiche, per quanto di splendida resa e colte nel dettaglio con tecnica maestria, che si scontrano con l’osservatore, orientando una conflittualità proficua per una riflessione relazionale con la propria e l’altrui soggettività. Performatività, identità, corpo, proprio e altrui, sessualità e lavoro, da quello di fabbrica a quello sessuale, sono gli ambiti più sviscerati dall’autore, che di nuovo sa scegliere aspetti cardinali nel definire canali che connotano e legano tante vite, per quanto esse si possano percepire distanti. Una mostra dunque in cui l’auto-esposizione autoriale richiama il vuoto come processo dello svuotarsi di fronte all’altro, ma che nondimeno conduce l’osservatore a svuotarsi a sua volta, dal pregiudizio, da impalcature sovrastrutturali, dal perbenismo, dal rifiuto della pluralità e del disagio che permea realtà e socialità, tanto cruente quanto dolci e vive di contraddizioni, proprie a noi tutti.