FIRENZE. Dal Senegal. Dall’Eritrea e da altri Stati dell’Africa dove chissà come si potrebbe stare se l’Occidente tutto, guidato dal capitalismo, non li avesse dissanguati, resi schiavi e costretti poi a fuggire per cercare un posto dove vivere e morire in pace. Paradosso vuole che ad ospitarli siano proprio quei Paesi che hanno loro succhiato risorse, sangue e dignità e che oggi, paradossalmente, si ritengano invasi. Un corto circuito mostruoso, nel quale attingono risorse e ricchezze una miriade di speculatori. Poi, però, esiste altro, che a Firenze, ad esempio, si chiama MigrAzioni – il teatro tra le comunità per la comunità – e che al Mila Pieralli di Scandicci, alla periferia inurbana di Firenze, ha portato in scena Sandokan, dello Zaches Teatro, in coproduzione con la Fondazione Teatro della Toscana e in collaborazione con Sociolab Ricerca Sociale, il tutto patrocinato dal Comune di Scandicci.
La regia è di Luana Gramegna; Francesco Givone firma scene, luci e costumi; Stefano Ciardi, il progetto sonoro e le musiche, originali (tranne che quella, indimenticabile, degli Oliver Onions, ai tempi della serie televisiva, con Kabir Bedi e Philippe Leroy, nei panni di Sandokan e Yanez). Gli attori, ex migranti, ex richiedenti asilo, sono dodici ragazzi, di età indecifrabile, che nonostante parlino a stento il nostro idioma, si sono messi all’anima di studiare un copione e portarlo in scena. Immaginiamo le difficoltà, ma non l’entusiasmo, perché loro, venerdì e sabato scorsi, 10 e 11 marzo, a teatro, hanno urlato e articolato il loro diritto di esistere, immergendo corpi e animo nella storia del pirata gentiluomo della Malesia, la tigre di Mompracen, pronto a tutto per liberare la sua Perla di Labuan (Carole André, sempre ai tempi della serie televisiva ispirata a Salgari). Il teatro, stavolta, però, è passato in secondo piano: gli spettatori, che hanno riempito la piccola sala del Pieralli tanto venerdì quanto sabato, erano lì per far capire ad Aboudacar, ad Alex, ad Assane, a Bacary, a Ebrima, a Fakeba, a Malick, ai due Mouhamed, a Moussa, a Oumar e a Tairon che per loro e per tanti altri loro fratelli, l’Occidente si può sdebitare, l’Occidente si deve sdebitare. Alla fine della rappresentazione infatti, durata poco meno di un’ora, tra effetti scenici artigianali ma di grande effetto, il rumore del mare in sottofondo come una spada di Damocle, le stive di barconi nei quali si accalcano uomini e disperazione, interrogativi urlati in francese, inglese e anche in alcuni accenti delle loro Terre, molti spettatori, dopo un esplicito invito a loro rivolto dalla regista, sono scesi sul palcoscenico e hanno ballato in compagnia degli attori. Lo spettacolo vero, però, non per i dodici attori, per noi, spettatori, inizia domani, lunedì: vediamo cosa sapremo fare, oltre che applaudirli!