di Luigi Scardigli
CI SONO persone che rappresentano un’epoca. Pino Daniele è l’anello di congiunzione tra la Napoli melodica, quella che si è tramandata nei secoli fino agli anni ’70 e quella dove Scampia, Le Vele, Secondigliano, i Quartieri Spagnoli non sono soltanto il centro d’affari della Camorra. A sdoganare quei palazzi, e soprattutto quella gente, ci ha pensato lui. Con la sua musica, con la sua rabbia melodica, con le sue denunce, con quelle urla lancinanti emesse in si bemolle che hanno finito per raccontare, a tutti, i colori di quella città. Approfittando anche e soprattutto di sontuose collaborazioni artistiche, come Pat Metheny, ad esempio, Eric Clapton (che ne dipinge un profilo straordinario) Al di Meola, Phil Manzanera, Wayne Shorter, YellowJackets, Steps Ahaed, Billy Cobham, Vinnie Colaiuta, Steve Gadd, Peter Erskine e una miriade di mostri sacri internazionali, arrivando fino alle nostrane Ornella Vanoni, Chiara Civello, Fiorella Mannoia, Lina Sastri, o di amici del calibro di Mario Biondi, Vasco Rossi, Claudio Baglioni, dei fortunatissimi Jovanotti ed Eros Ramazzotti, o di amicizie strette, strettissime, con personaggi indimenticabili, per lui e per noi: Massimo Troisi.
Lo ha fatto in quarant’anni di musica, fino a quando il cuore, il suo cuore, che ha parlato senza deleghe solo e soltanto per tutti i napoletani, ha smesso di battere. Sono passati più di due anni dalla sua scomparsa e ora, Giorgio Verdelli, ne ha voluto ritessere la memoria, tra l’altro incancellabile, con un docufilm, Il tempo resterà, nelle sale cinematografiche soltanto tre giorni, fino a mercoledì 22 marzo ad un prezzo, a nostro avviso, che stride con la necessità, storica e sociale, prima ancora che musicale, di vederlo (12 euro). Sono circa due ore di racconti, offerti alla memoria da alcune registrazioni di concerti e qualche sua avarissima confessione, oltre al ricordo dello straordinario musicista offerto da nobili colleghi conterranei e molti altri personaggi della musica e del jet set, soprattutto quelli che hanno diviso e condiviso con lui gli esordi. Sono gli strumentisti di Napoli Centrale, quel crocchio di musicisti che hanno di fatto battezzato una vera e propria stagione: Tullio De Piscopo, Tony Esposito, James Senese, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Gigi De Rienzo, Ernesto Vitolo, Enzo Gragnaniello, senza dimenticare il poliedrico Beppe Lanzetta. Il ricordo di Pino Daniele, però, in questo documentario che vi consigliamo, naturalmente, di non perdere, gode anche di alcune particolari visualizzazioni, come quelle offerte dal collega (nostro) Sandro Ruotolo, dalla melodia napoletana per eccellenza, Massimo Ranieri, da un terzo de La Smorfia, Enzo De Caro, dalle puntualizzazioni estetiche e melodiche del più grande pianista vivente, Stefano Bollani, da qualche rappettaro partenopeo che come chiunque altro si permetta di fare musica, a Napoli, non può che essere debitore con il patrimonio di Pino Daniele. La carrellata di personaggi e di omaggi si chiude con Giorgia, che parla del suo amico e collega scomparso (conosciuto un po’ troppo tardi, a nostro avviso) al presente, come se fosse ancora lì, qui, in qualche angolo del mondo a suonare. Un documentario importante - nonostante una presenza, massiccia e ingiustificata, di Claudio Amendola e un’assenza grave, quella di Gianni Minà -, che andrebbe fatto girare prima di tutto nelle scuole, a cominciare da quelle di Napoli, dove musica si fa soffiando in un piffero e dove gli eroi, purtroppo, non sanno suonare.