PISTOIA. Vedere all’opera Fabrizio Gifuni è uno spettacolo. In tutti i sensi. È un ballerino meraviglioso, un abile incantatore di serpenti, un severissimo censore di comportamenti non consoni alla civiltà, un indomito sobillatore di masse, seppur ostiche, perché dormienti, a qualsiasi sollecitazione, un impareggiabile traghettatore di speranze da una riva all’altra, anche se peggiore, del fiume che ci passa nel mezzo, un delizioso affabulatore tristemente dotato di una ferrea memoria storica e civile. E poi, un attore straordinario, un inimitabile monologhista, che si esalta e esalta il pubblico, quello capace di intendere e volere, quello che capisce e vuole capire, un’esigua minoranza, quando si cimenta nelle riletture di Pier Paolo Pasolini, il più grande intellettuale, insieme allo statista Aldo Moro, di questo paese. Che sprofonda. In quel baratro abilmente scavato, nel suo letto privilegiato, dal capitalismo e riempito, fino a coprire interamente e perfettamente la fossa, dagli artefici inconsapevoli della macchina consumistica: noi tutti. Flebilmente, tragicomicamente e orgogliosamente aggrappati ai laceri e inutili possedimenti che il meccanismo ci offre sistematicamente per garantirci la sensazione di essere ancora vivi. Ignorando, invece, che, nella migliore delle ipotesi, siamo già cadaveri.

Pier Paolo Pasolini, tutto questo, lo sapeva e sapeva perfettamente che proprio lì saremmo arrivati, in una proiezione temporale indefinita e indefinibile, ma inevitabile. Lo ha scritto, rappresentato e profetizzato in tempi per nulla sospetti, insospettabili e insospettati dalla massa, non certo da chi aziona e manovra le leve del potere, perché fu facile, in virtù del suo impudico amore, sacrificarlo, spacciando così un vero e proprio agguato in un infimo contrattempo tra faccendieri e mercanti del sesso. Ieri sera, al Teatro Manzoni, appaltato per la circostanza dall’organizzazione dei Dialoghi sull’uomo, edizione che stavolta verte sul tema Rompere le regole: creatività e cambiamento (e cioè?), Fabrizio Gifuni ha offerto, ad una sala gremita in ogni ordine di posti (ma non di gradi, per fortuna) una delle sue perle più deliziose, l’immedesimazione in Pier Paolo Pasolini, ‘na specie de cadavere lunghissimo, risfogliandone l’ineguagliabile valore profetico. Lo ha fatto leggendo alcuni suoi passi, che lo resero, come tutta la sua produzione intellettuale, del resto, inviso tanto al grande vecchio, che non perse tempo a eliminarlo, quanto ai giovani che avrebbero dovuto ideologizzarlo, perché ricchi di slogan e poveri di studio, non seppero apprezzarne la portata rivoluzionaria. Nella circostanza, i passi presi in prestito e offerti con la stupefacente grazia di uno dei pochi reali santoni del palcoscenico italiano, appartengono a Lettere luterane e Scritti corsari, che già allora rappresentarono la nitida percezione dell’oblio al quale la società si stava, inavvertitamente, preparando a chiudersi, telecomandata dal consumismo che molto più efficacemente dello sconfitto fascismo avrebbe soggiogato, in un crescendo di falsa democrazia, tutti i propri ignari soldatini, dai padri ai figli, attraverso le madri. Un’ora e poco più di attrazione elettrica, calamitica, scandita dagli sguardi minacciosi del protagonista che ha accompagnato una parte del pubblico nelle loro inspiegabili distrazioni, perdonati, alla fine, da quell’abbraccio virtuale e simulato con il quale Fabrizio Gifuni si è voluto congedare, fino a stringere il pugno della mano sinistra, un cenno inequivocabile chimicamente incomprensibile non solo da questa Amministrazione e dagli organizzatori dell’evento, ma soprattutto da quelle che ci sono state negli ultimi settant’anni e che dietro quel gesto si sono infidamente nascoste.

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