di Raffaele Ferro
QUARRATA (PT). Parco Verde, posto bellissimo. Ristorante, circolo Arci. Tendone piccolo, mini-balera e un sestetto su un piccolo palco. In prima linea, poco spazio, tre musicisti di vecchio stampo, pistoiesi doc – Andrea Pagliari (il nobile radiologo, chitarrista 360°, chitarra e voce; Fabrizio Berti (decano del Blues di casa nostra), armonica e lo zio Elio Capecchi (chi non lo conosce in Pistoia è un alienato), chitarra acustica e voce. Per noi non più giovanissimi viene in mente i Rumble Beat, appunto, Elio Capecchi e Andrea Pagliari suonavano il rhytm n' blues rumbleggiante e solido. Oggi - in questa versione revaivalista, delle origini, polverose e calde del Blues delle origini – si chiamano Dusty Broom. Contrabbasso del giovane Alessandro Toland Antonini, la batteria di Lio Monfardini, il vilono dolce e tagliente di Chiara Bondi, l'organo e fisarmonica di Aurelio Fragapane. Sulla scia spumosa che ha lasciato il Pistoia Blues 2018 ci sono loro, a continuare in una situazione casalinga, bucolico-sagraiola, appunto, i Dusty Broom.
Il nome, dall'antico brano blues Dusty my broom, di Elmore James. E siamo davvero alle origini del Rock, come dicono loro, all'ossatura, la monocellula primordiale del Rock: il Blues. Canzone che suonano sul finale, spiegata e introdotta dal benignesco, super pistoiese, zio Elio. Si infervora lui, sudato, alla fine dello show, chiama il ridotto e, non più giovanissimo pubblico, ad avvicinarsi, a ballare. Ecco, il miracolo della musica: mi avete fatto cantare una serata intera da seduti, e ora ballate e non volete che ce ne andiamo.. Siete proprio dei …., urla quasi Elio Capecchi. Ma, a ritroso, un bis immancabile (lo stesso del grande Billy Gibbon Zz Top nell'ultima serata in piazza del Duomo), l'inno Mojo working, in una versione sprintosa, velocissima e calda. E prima ancora, South of the border, perla blues mexicofila di frontiera sempre triste e povera, di Sam Cook, ballata bellissima che i Dusty Broom eseguono con soffice maestria. Ancora indietro, nella scaletta e nel tempo, My lord! canta Elio, immedesimandosi nel colosso Big Bill Bronzy che racconta dei costruttori di ferrovie, un secolo e mezzo fa quasi, piantati in asso dalla tecnologia: trattori e mezzi meccanici, sostituirono i non più schiavi (per modo di dire, ribadisce Elio) lavoratori afroamericani (e anche cinesi, per essere più precisi). Turbinio di note, ritmi, armonie e mix di strumenti. Passione e commozione nel sentire una meravogliosa versione di Hold On (lacrime e pelle d'oca) del grande Tom Waits, dall'album Mule variation, sintetica, ermetica, con lo shaker di Fabrizio Berti e la batteria minimale waitsiana di Monfardini. Ma non può mancare Johnny Cash (in questo vero documentario sonoro live) e la sua I walk the line, un modo per ricordare, dice sempre il frontman incallito, rigare diritto con la propria donna, se non si vuole essere silurati. E grazie, grazie davvero, per la meravigliosa Down on the corner dei seminali, gli essenziali Credence Clearwater Revival che il gruppo, allegro e leggero, ci ha suonato con brio. A ritroso. Sì, siamo andati a ritroso, e la scena, il tendone, visto da lontano, pare essere qualcosa d'altri tempi, quando la musica live (in questa terra, quella di Roberto Mario Cioni Benigni, nato proprio ad un pugno di minuti da qui) costava poco o niente. Oggi tutto si paga; tutto si valuta e si vota. Ma ieri sera, come ha detto uncle, zio, tarabaralloide Elio Capecchi, qualcosa di impagabile c'è stato. L'entusiasmo, la resurrezione di corpi assopiti sulle sedie, spettatori falsamente stanchi, normalmente depressi, che si sono alzati, da un oggigiorno pesante e stupidamente televisivo, di politica/spettacolo. Beh, in una festa del Pd, certo. Proprio qui. Il miracolo, questo (ri)sbocciare, alzarsi dalle sedie bianche di plastica e ballare, battendo le mani e cantando in coro When the saints go marching in, in una serata di mezza estate, fresca e amica.