di Barbara Ferrando
NELLE VENE gli scorrono mille rivoli di musica. Ha la pretesa di volerli conoscere tutti. Vista la sua determinazione, l'ostinazione, la classe cristallina che distingue il suo sound e il famelico desiderio di andare oltre, non abbiamo motivo di dubitare che presto giunga a destinazione. Una destinazione non contemplata da alcuna mappa geografica, però. Perché così è la strada del jazz e questa è la strada che ha imboccato, tanti anni fa, Lawrence Clark, con i suoi sassofoni. Come ti sei avvicinato alla musica? Mi ricordo che quando ero bambino sentivo mio padre e mio zio ascoltare un sacco di musica la sera. Anche se non era jazz era comunque buona musica, molto soul e funk. Dall’ascolto di questa musica che era veramente forte ho cominciato a interessarmi al sassofono. A scuola, in quinta, ho assistito a una dimostrazione: so come suonarlo e ne sono rimasto affascinato. Qualche anno più tardi avrei avuto l’opportunità di possederne uno e di iniziare a suonare. Se non fossi diventato un jazzman, cosa saresti stato? Avevo molti interessi, come l’architettura o la scienza, ma nessuna di queste cose è paragonabile al fatto di suonare il sax. La musica è tutto ciò che conosco e sembra essere il mio destino. Non so immaginare cosa sarebbe stato se non fossi diventato un musicista.
Tu sei un compositore: come nasce la tua musica? La mia musica è sempre collegata alle esperienze, ai sentimenti, alle emozioni che cerco di catturare raccontando la mia storia attraverso i suoni. Talvolta è proprio una cosa personale e un modo per ricordare un luogo, una persona, o il momento, o quello che ho provato. Quanta improvvisazione c’è nel jazz oggi? Molti hanno la loro concezione di cosa sia il jazz e hanno la loro interpretazione di come debba essere suonato. Alcuni pensano al Jazz come a un format improvvisato, basato soltanto sul mood e su varie sensazioni, mentre altri hanno una concezione più strutturata con parti improvvisate, una melodia definita e poi assoli improvvisati. Questo varia da persona a persona. Esiste una differenza tra jazz europeo e jazz americano? Certamente può esserci una differenza, ma ciò che ogni musicista vuole raggiungere è studiare la storia del jazz e assorbirne il più possibile la tradizione e il linguaggio. Il sentimento e l’intenzione associata al jazz dipendono dalle proprie esperienze di vita: una persona che è cresciuta in una chiesa battista può avere una sensibilità diversa da quella di una persona che non va in chiesa. Ci sono molti scenari differenti, ma il risultato finale è che noi tutti dovremmo apprendere il linguaggio dei maestri. Di cosa ha bisogno il Jazz oggi e qual è la sua più grande sfida? Il Jazz ha bisogno di più occasioni valide perché i musicisti siano ascoltati. Non è facile se si considera che è la musica più popolare, ma questo potrebbe essere utile. Raccontaci un ricordo o un aneddoto riferito a un tuo concerto. Un bel ricordo di uno spettacolo che ho fatto a San Diego. Tra il pubblico c’era uno dei miei idoli, James Moody. Ero molto teso al pensiero di esibirmi e di vederlo seduto in prima fila a guardarmi. Più tardi mi sono seduto a parlare con lui. Era gentilissimo e ha detto cose molto belle su come avevo suonato. Non lo dimenticherò mai. Con quale musicista vorresti suonare? Se fosse possibile, tornerei indietro nel tempo e mi avvicinerei direttamente ai grandi maestri: Bird, Diz, Miles, Monk, Lester, Sonny, Max. E la lista potrebbe continuare. Oggi il jazz accoglie nuove influenze provenienti da diversi generi musicali. Dove stiamo andando? Non so dire dove il jazz stia andando. Non ne ho idea. Ma so dove voglio arrivare con il jazz e come voglio evolvere me stesso e la mia musica in questo viaggio che dura tutta la vita. Progetti futuri e un sogno. Il mio progetto futuro è fondere il mio concept con una piccola orchestra. Mi ci vorrà un po’ di tempo e devo ancora imparare tanto, crescere. Ma è uno dei miei obiettivi.