di Samuele Manduca
PISTOIA. Tornare a Pistoia non perché ci sia già stato ma perché lo storico di Monticiano di Siena ha antichi avi servi della gleba del cardinal Forteguerri, storico quanto ideale padron di casa stamattina in questa affollata sala Gatteschi, al secondo piano della famosa biblioteca che gli deve il suo nome e da cui si diparte, come un perno di un'antica ruota fatta di testi e libri rari, tutto il rilevante sistema bibliotecario della vostra città. Una delle città del silenzio, come la definisce questo omonimo del filosofo di Nola per caso, il cui battesimo ricade nella responsabilità dei due nonni che non si trovavan d'accordo, nel 1950, sul nome del nascituro: uno lo voleva chiamar Giordano, l'altro Bruno, e finiron per chiamarlo con questo binomio senza manco saper chi era il più famoso frate domenicano del suo tempo, morto sul rogo nel ‘600. Ma, non son certo questi umili, analfabeti natali, della cui ignoranza Giordano non si vergogna affatto sciogliendosi la cravatta blu e posandola sul tavolo davanti a tutti, a impedirgli di fare un primo, sottile riferimento a quello che è il personaggio centrale della sua ultima storia, Gabriele D'Annunzio e la vicenda della città di Fiume, nel biennio 1919-20: è infatti nel suo libro Elettra, del 1903, secondo tomo delle sue Laudi, in cui sbocciano appunto Le città del silenzio, una raccolta di poesie dedicate a quei centri storici italiani che furono un tempo sede di raffinata civiltà e in cui, assieme a Lucca, Pisa, Prato, Ferrara, spicca anche Pistoia, l'aspra Pistoia, città di crucci, come la definisce il Vate nel suo primo capoverso.
Il riferimento che intercorre tra D'Annunzio e la città di Pistoia non si ferma qui, nella narrazione mattutina di Giordano Bruno Guerri; ve n'è un altro, ancor più attuale, che consiste nel fiore preferito del vate pescarese: la rosa, protagonista delle sue tre trilogie (I romanzi della Rosa si fermarono al racconto intitolato Il Fuoco, giunto a ultimazione dopo i più famosi Il piacere, Il trionfo della morte e L'innocente) e di cui lo storico e giornalista toscano ci informa che andrà a visitare la coltivazione, nel pomeriggio, proprio in uno dei vostri vivai. Sarà infatti lì che grazie a raffinati innesti, si darà alla nascita la Rosa Gabriele D'Annunzio, un fiore che lo stesso Guerri definisce pieno, carnoso, pesante e che verrà presentato il giorno 21 di settembre, durante una festa che si chiamerà l'odorosa, proprio al Vittoriale, il complesso architettonico creato dall'architetto Giancarlo Maroni tra il 1921 e il 1938 a memoria dell'impresa inimitabile del poeta-soldato durante la prima guerra mondiale, situata sulla sponda bresciana del lago di Garda. È in questo invito a partecipare ai festeggiamenti della Rosa di D'Annunzio rivolto ai pistoiesi e al loro sindaco che Bruno Guerri volge poi lo sguardo ad un'altra città, in questo caso non più del silenzio ma olocausta, la città oggigiorno croata di Fiume, situata sul golfo del Quarnaro, teatro di una controversa contesa territoriale proprio nel biennio 1919-20 in cui Guerri allestisce la sua ricerca, culminante nel momento in cui l'ala irridentista dei fiumani, capeggiata da Giovanni Host Venturi, chiede al poeta italiano più famoso del suo tempo, di occupare militarmente la città con i suoi 2.500 legionari fiumani, nasce la Reggenza italiana del Carnaro (Gabriele conquista la città come un capitano d'armata rinascimentale, senza sparare un colpo), la quale, a detta di Giordano Bruno, prima ancora che un'occupazione di riconquista territoriale è un avamposto di conquista culturale in cui si sperimenta un primo esempio di carta costituzionale intesa nei crismi della democrazia diretta (decentramento del potere), della parità dei sessi (anche omosessuali), delle classi, delle lingue, delle razze e delle religioni; del diritto a un lavoro regolarmente retribuito, della pensione di vecchiaia per tutti, al suffragio universale (non solo: le donne possono anche essere elette), all'istruzione gratuita (ci sono già i rappresentanti degli studenti nei consigli di istituto che in Italia arriveranno cinquant’anni dopo), alla libertà di espressione e di stampa, al riconoscimento del divorzio e all'abolizione dell'esercito in tempo di pace (la foto di copertina sul libro Disobbedisco, cinquecento giorni di rivoluzione, in cui un D'Annunzio in divisa, con un mazzolin di violette legato alla cintura, reca dei rami fioriti che sarebbero stati, di lì a poco, collocati dentro la canna del fucile dei propri commilitoni è, in questo senso, emblematica). Un disegno costituzionale di organizzazione statuale sorprendente per l'epoca che è anche un tentativo veramente bizzarro, per i coevi, di interpretazione delle inquietudini sociali e dei fermenti politici che pervadono l'Europa alla fine del primo conflitto mondiale, forgiato dalla convinzione che non erano i trattati a dettar la legge, ma gli eroismi della guerra (Il patto di Londra è, dopotutto, un trattato segreto risalente all'aprile del 1915). In questo modo la città olocausta di Fiume divenne il fulcro di una operazione elitaristica, estetica e politica ancora in atto, volta alla formazione ideale, diffusa ed esportabile, di una discrepanza sostanziale tra essa stessa e la Roma parlamentare; mentre da una parte, i cittadini fiumani concentravano nel proprio agire quotidiano un’indole alla cosciente trasfigurazione d’ogni attività nella creazione di una rinnovata località di eroismo e virilità, ereditando dalla recente tradizione delle trincee del Carso, e degli scontri sui vari monti istriani e dalmati, la spassionata e vitalistica tendenza al sacrificio volontario, la Roma istituzionale procedeva (e procede), nel quotidiano disinteresse alle necessità annessioniste, proponendo la medesima politica condotta da vecchi statisti nel chiuso di quattro mura e tra le volgarità del mondo post-bellico, come dice il Vate. Il mito giovanilistico delle due Italie contrapposte in una costante incomprensione doveva, quindi, essere terreno di scontro tra le masse organizzate, eredi della futura lotta in virtù di quell’Italia che le trasfigura, e la restante forza dismissoria del paese nei confronti delle autorità extra-nazionali; una sorta di presentazione di un anti-partito di massa, fondato sulla modulazione militarista dei propri contenuti e delle sue forme. Come ricorda l'inquietante Michael Ledeen nel suo D'Annunzio a Fiume (The First Duce - Laterza, 1975), altro storico e giornalista statunitense di cui Giordano Bruno Guerri in questo suo intervento pistoiese si guarda bene dal menzionare, ex consulente del Consiglio di Sicurezza Nazionale, del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della difesa USA, membro dell'American Enterprise Institute, spesso al centro di scandali internazionali (Iran-Contra, Nigergate etc): parte del rituale della moderna politica è nato a Fiume sotto la direzione di D’Annunzio e il primo discorso dal balcone del nuovo comandante è stato il modello di tutte le arringhe dei mesi che seguirono. Incredibile! Guerri a questo punto si chiede, dopo aver fatto capire che il vero duce ideale, almeno in questa fase primigenia che introdurrà al ventennio nel 1922, è proprio Gabriele D'Annunzio, per quale motivo il suo mito sia stato improvvisamente sommerso da quello politico, bellico fascista di Benito Mussolini, che arriverà soltanto qualche anno dopo. La spiegazione dell'intellettuale toscano è duplice: D'Annunzio contraddice con la sua stessa biografia il cliché del poeta sofferente, intellettuale squattrinato, solo; egli è invece il primo esempio di poeta-principe, trionfante guerriero, mal si innesta questa figura nel panorama di una cultura letteraria italiana preoccupantemente pervasa dai moralismi degli odiati Carducci e Pascoli, dei chitarristi al cospetto del Vate. La seconda motivazione alla damnatio memoriae di Gabriele D'Annunzio è invece riconducibile alla sua assimilazione con il fascismo. Guerri vuole dimostrare con questa sua ultima opera che l'associazione tra fascismo e dannunzianesimo è assolutamente errata (La carta del Carnaro, di cui sopra, è approntata dal socialista Alceste de Ambris), certo il vate non è assolutamente un democratico (mai la mia mano sarà sporcata dalla scheda elettorale), ma la costituzione di Fiume lo è, e allora, in cosa consiste il motivo del suo fallimento politico e culturale?
In Benito Mussolini, che in quegli stessi mesi fiumani aveva appena iniziato a dar forma al movimento fascista e che, all'epoca, era infinitamente meno famoso e meno ammirato di D'Annunzio (il manifesto di San Sepolcro del 1919 aveva dei contenuti da ultrasinistra), il socialista di Predappio è in quel momento un semplice gregario del Vate che, a un certo momento, non solo frena D'Annunzio dalla volontà di marciare su Roma (voleva farlo lui), ma tratta segretamente con Giovanni Giolitti per entrare nel listone elettorale liberale che Giolitti sta preparando nelle elezioni del 1921, al fine di entrare finalmente nelle stanze del potere romano. Si profilano così due geni contrapposti: un gigante della letteratura e della lingua italiana che è anche pessimo politico, contro un maestro elementare però geniale nel tatticismo della politica, che vuole essere anche potere. In questa contrapposizione, Fiume si trasforma allora proditoriamente in un'impresa fascista al grido di un Eia, Eia! Alalà! che era stato ripescato proprio da D'Annunzio durante i suoi anni da aviatore per contrapporlo al popolarissimo Hip hip Hooray dei barbari anglosassoni (solo che l'Eia, Eia! Alalà! dannunziano terminava con un Viva l'amore). La cosa imperdonabile è che, in questo maledetto inganno, non cadde solo Gabriele D'Annunzio il cui mito si estinse nel fumo delle sue dipendenze, la polvere folle come usava chiamare la cocaina e, dei suoi debiti, ma, anche noi, la nostra narrazione storica di quegli anni, i nostri insegnanti, la nostra scuola. È la storia narrata dai vinti, dal Vate, dal principe-poeta che si riprende la sua vittoria in questo libro di Giordano Bruno Guerri e in cui si capisce che il poeta abruzzese, negli ultimi anni della sua esistenza, si fa lautamente pagare dal duce quell'acquiescenza mostrata nei confronti di un regime che in realtà disprezza profondamente. Meglio rinchiudersi nella gabbia dorata del Vittoriale, con i suoi romanzi di carne senza carne, che non riesce a scrivere. Meglio la Rosa Gabriele D'Annunzio, a Pistoia, 81 anni dopo la sua fine.