LIVORNO. Ha preso qualche chilo e si è tagliato i riccioli che gli coprivano gli occhi. L’aria, ora, è un po’ meno maledetta, rispetto a prima, ma il risultato è lo stesso. Soprattutto a casa sua, a Livorno, tra la sua gente, quella di Shangay (è del Pontino, lui, ma quelli di Shangay gli han dato la cittadinanza onoraria), dove ieri sera, in via Turati, per l’esattezza, in uno dei giardini incastonati tra le abitazioni che risentono di architetture di regine, Bobo Rondelli ha inaugurato la quarta edizione di Scenari di Quartiere, l’iniziativa figlia di Fabrizio Brandi e Marco Leone, organizzata dalla Fondazione Teatro di Goldoni di Livorno e dal Comune stesso, con il contributo dell’Associazione Quartieri Uniti di Livorno. Nove appuntamenti on the road tra le case della città labronica, tra i quartieri di Shangay, Garibaldi, Collinaia, San Jacopo, Antignano, Benci centro, Sorgenti, Ovosodo e Fabbricotti che si chiuderanno con l’esibizione di Giobbe Covatta (La Divina Commediola) il prossimo 22 settembre. Nove appuntamenti (tutti gratuiti, con inizio previsto alle 19, così dopo fate quel che volete) di arte per strada, tra i quali vi raccomandiamo, sentitamente, quello in programma giovedì prossimo, 12 settembre, in via Fortunato Garzelli, in Collinaia, di e con Oscar De Summa, meraviglioso monologhista compulsivo, Diario di provincia.
Il back stage della manifestazione, ieri, è stato il giardino condominiale, quello sotteso tra dove finisce l’erba e inizia la lingua di cemento che costeggia le abitazioni a piano terra. Bobo Rondelli, accompagnato dal suo manager e dall’inseparabile Steve Lunardi al violino e Claudio Laucci al pianoforte, ha aspettato che tutto il Quartiere fosse pronto per iniziare. Poi, dopo l’introduzione di rito degli ideatori e la benedizione di un’ala della città ufficiale, il funambolico giocoliere della parola, della musica, delle imitazioni e del dolore, con in mano la sua ultima pubblicazione, Cos’hai da guardare, e la chitarra, è andato a incominciare. Lo ha fatto poco dopo le 19, quando i riflettori non servivano ancora e lo ha fatto alla sua maniera, senza prendersi lontanamente sul serio, dando subito vita e benzina ai suoi motori più potenti: le imitazioni (Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi, nei panni del Conte Mascetti) e quella insana, quasi inimitabile, tragicomicità, tra gli sberleffi e gli slang quotidiani di una città sempre uguale a se stessa e che non si potrà mai gemellare con Pisa (merda) e i ricordi, dolorosi ogni oltre ragionevole sopportazione, delle fatiche e delle umiliazioni sofferte dai suoi vecchi, la madre su tutti, bambina tredicenne già sottoposta allo schiavismo del lavoro e delle morbose attenzioni dei suoi datori. Per cantare, per urlare, fioco, il dolore della memoria (Nara F.) e la voglia, laica, dunque irrealizzabile, di renderle dignità, Bobo Rondelli ha aspettato che il sole calasse dietro Tirrenia, verso ovest, affinché le lacrime, le nostre almeno, sicuramente, non si potessero scorgere con tanta facilità. Un brano e una lettura, con un copione quasi improvvisato (il quasi è eufemistico: ho sempre provato a non lavorare; figuriamoci se faccio le prove), tenuto dignitosamente in piedi dall’elastica versatilità dei suoi due strumentisti, che lo hanno, come di rito, assecondato in tutto e per tutto. Shangay era tutta lì, con il suo cantore, con il suo profeta in patria, a canticchiare i suoi stornelli entrati, con giusta prepotenza e tanto candore, nel cuore e nelle giornate della sua gente, a ridere delle sue battute, che tutti conoscono alla perfezione, ma sulle quali, puntualmente, i livornesi, non solo quelli di Shangay, ma anche quelli che stanno in Argentina, si divertono ancora, perché il tramonto si avvicina con sadica puntualità e non farà sconti. A nessuno.