di Raffaele Ferro
UN ALTRO GIGANTE della musica ci ha lasciato. Ginger Baker? È un caposaldo, cosa c'è da dire? Non si possono fare confronti con nessuno. E questo lo dico senza voler giudicare o pesare avvenimenti e situazioni più o meno spiacevoli, sia nella sua vita in generale, che è una vera avventura, che qui in Italia. Situazioni e fatti che hanno visto Ginger trascorrere in un quasi totale anonimato i giorni in cui io, bambino e poi adolescente, ho avuto l’onore di frequentarlo come discepolo di batteria. È Enrico Cecconi che parla, sempre ospitale e fraterno con noi che di musica ne facciamo e ne respiriamo da sempre. Lui, miracolato dal destino, toccato dalla fortuna di aver avuto proprio lui come maestro, dove nel senso più ampio del termine, maestro significa qualcuno da rispettare o, addirittura, da temere, con riverenza e soggezione. Non c'è bisogno descrivere l'importanza di Ginger Baker nel batterismo e nella storia del Rock. Lui, fondatore dei Cream (in soli due anni, 1966-68, rivoluzionarono il blues e il rockblues) a fianco di Eric Clapton (alla chitarra, ma occorre dirlo?) e Jack Bruce (al basso; qualcuno non lo sa?), dove invece la nostra conviviale, ma rispettosa e anche commossa chiacchierata con Enrico è senz'altro un contributo prezioso alla conoscenza di questo grande musicista. Infiniti articoli e interviste, in questi giorni, ne stanno celebrando il talento, in tutto il mondo. Anche noi, stasera, siamo qui a parlarne, a cena, osservando filmati e interviste, filtrati dall’esperienza diretta, più che dai ricordi, del suo prezioso allievo, ripercorrendo ricordi e aneddoti della sua permanenza in Toscana. Nelle colline di Larciano, dove si era stabilito nei primissimi anni ‘80 e aveva scelto la vita semplice dell'agricoltore, del muratore, ma soprattutto di colui che dopo decenni di fatiche, successi e fama aveva preferito l’anonimato.
Mi fu presentato nel 1982 -ricorda ancora Enrico - come maestro particolarmente adatto per me che a sei anni avevo già suonato la batteria per un intero veglione di capodanno e che regolarmente, a dieci, mi esibivo davanti al pubblico. Forse val la pena ricordare, per quei pochissimi che non lo sanno, Enrico Cecconi è un turnista professionista di livello internazionale, che ha vissuto anni negli Stati Uniti e che ha suonato con musicisti di livello superiore, in Italia e all'estero. Vengo dalle Fornaci, quartiere antico e poi maledettamente popolare dell’hinterland di Pistoia, dove per noi bambini la musica era davvero una cosa normale, come giocare a pallone. Vari maestri, ore e ore di studio avevano fatto di me un bimbo prodigio, ma qualcosa mancava; lo sapevo, lo sentivo, nel senso che tutte quelle teorie, rudimenti, certo indispensabili, non bastavano, o meglio, non mi rendevano libero. Ero un bambino e non potevo fare scelte, ma un giorno qualcuno consigliò il mio babbo di accostarmi a questo nuovo maestro. La prima impressione? Ginger, mi commuove solo il pensiero della sua voce. La voce di Ginger; ce l'ho qui (e si indica il centro della fronte) viva, e la sento da sempre chiara e nitida, bassa e profonda. Quando lo vidi, però, mi fece paura. Mi faceva paura come a un bambino può fare paura un figuro magro e alto, con uno sguardo tagliente e soprattutto con un linguaggio incomprensibile.Io non sapevo chi fosse, della star che fosse e dell'importanza che aveva nel mondo della musica. Ma più volte l’ho accompagnato in Vespa, e molte volte era a casa mia a pranzo e poi tantissimi aneddoti che potrei raccontare.
E delle tante volte che ho fatto forca a scuola per andare su in collina, da lui. Bussare alla porta aspettando emozionato e vederlo aprire, silenzioso e deciso a farmi studiare seriamente. Ma poi c'erano i boschi, la natura, il divertimento. Ecco, l’aspetto umano e quello professionale coincidevano per me. Era uno di casa e, per me, anche e soprattutto un maestro, l'unico a tutt’oggi che tengo nel cuore. Ho il pedale della sua Ludwig, che per anni ho suonato e questo gilet (nella foto), che portava negli anni psichedelici. Ho tanti ricordi; ho il tamburo muto da esercizi costruito da lui, l'immagine netta della sigaretta (pall mall) senza filtro sempre in bocca e come ho detto, la sua serietà nel farmi studiare duramente. Io, all'inizio, alla prima lezione, credevo che mi avrebbe fatto suonare come la volta che mi accompagnarono per conoscerlo. Quella volta in cui mi fece suonare sulla sua batteria per qualche minuto e mi accettò come allievo dicendo "good, good". Quello lo capivo; significava che andavo bene, ma di tutto il resto non capivo nemmeno una parola e allora pensavo che mi avrebbe fatto lezione sullo strumento. Invece mi fece suonare solo sul tamburo muto: duine, terzine; prima lentissimo, poi sempre più veloce. Fu difficilissimo e quando mi fermai sentii un ronzio, quasi come un frullare qualcosa nell'aria. Era lui, che a velocità incredibile, con una dinamica unica, stava continuando l'esercizio sul suo rullante. Esercizio, esercizio. E non solo quella prima volta. Per lui l’esercizio era indispensabile, come respirare. Era un uomo difficilissimo ed è vero quello che dice Clapton nel documentario, quando sostiene che uno può anche credere di conoscerlo, Ginger, di sapere chi sia, ma che fare un passo nel suo interno è difficilissimo, e anche spaventoso. Ecco quello che viene fuori, ciò che non ha niente a che vedere con la fama e l’essere mostro sacro. Viene fuori che io non sapevo niente di lui e che per questo ne vivevo parte della personalità più originale, quella semplice, di un uomo semplice che amava la musica come amava gli animali e la natura. Uno con tante beghe, difficoltà di famiglia, tasse, quattrini, manager e anche uno che sapeva di essere quello che era, ossia un dio della batteria. Se c'è una cosa da ribadire è la fortuna immensa che ho avuto: esser stato suo allievo, essere stato in una situazione tale da farmi avere quel privilegio. Il resto, tutto il resto, anche se entusiasmante, sarebbe troppo lungo, commovente da raccontare. Grande il Ginger, mi manca. E gli occhi lucidi di Enrico, quasi per magia, sì confondono con quelli di Ginger Baker quando (ripetendo il concetto che Enrico ha espresso, quello della semplicità umana e dell'amicizia vera come valore più alto che possa esserci) alla fine dell’intervista che stiamo guardando ormai a notte fonda, dice, mostrando quattro dita. Ci sono quattro batteristi nella storia : il primo è Max Roach, il secondo Art Blakey, il terzo Elvin Jones. Poi si struscia gli occhi bagnati di lacrime, e la sua voce inizia a farsi tremula quando dice… Ecco, questi sono i miei amici, e sono qui, sempre con me.