di Olimpia Capitano

LIVORNO. Ieri sera, 9 ottobre, a Livorno è iniziato il FIPILI Horror Festival, alla sua decima edizione, rassegna che anche quest’anno presenta in cartellone offerte culturali variegate, tra cinema, letteratura, teatro e performances sperimentali, tematicamente costruite attorno al tema della paura. Occorre infatti sottolineare quest’ultimo aspetto: la paura è il fulcro di tutto ciò che abita il festival ma, al contempo, la pluralità semantica e interpretativa del concetto e del suo significato permettono di creare situazioni inattese, sfumate, affini tanto alla dimensione soggettiva e non banale della paura stessa, quanto al suo variare per forme e contenuti anche nell’immaginario collettivo. Segnali d’allarme. La Mia Battaglia, di Elio Germano (tratto dallo spettacolo teatrale La mia battaglia scritto da Elio Germano e Chiara Lagani; diretto e interpretato da Elio Germano; regia, Elio Germano e Omar Rashid; aiuto regia, Rachele Minelli; luci, Alessandro Barbieri; fonico, Gianluca Meda; fotografia, Luigi Ruggiero e Filippo Pagotto; post-produzione, Sasan Bahadorinejad; produzione, Pierfrancesco Pisani, Gold e Infinito), presentato nella prima giornata, è stato emblematico in questo senso, elegantemente figlio di un tempo che è quello contemporaneo, ma che non si separa astrattamente da eredità e genealogie storiche. La riflessione si muove su molti piani, di carattere storico, politico, strategico-comunicativo da un lato; materiale, mediatico e meta-teatrale dall’altro.

Le premesse sono due, ossia la sostanziale dimensione ignara dello spettatore, cui il contenuto della piéces non è descrittivamente presentato in alcun modo e la scelta di utilizzare dispositivi per la trasposizione in realtà virtuale di uno spettacolo teatrale, permettendo allo spettatore di immergersi a tutto tondo in un altrove, che porta a confondere immagine e reale. Se dapprima una tal scelta potrebbe sembrare un esperimento tecnico e stilistico, un’innovazione tecnologica funzionale a far dialogare il teatro con i nuovi strumenti della contemporaneità, questo senz’altro non è il punto: interpretare in questo senso l’attenta scelta di costruzione rischia, a nostro avviso, di banalizzare e non far comprendere a fondo il senso di una simile opzione, rischiando di non far emergere con chiarezza il perché di un portare il teatro virtuale in un altro spazio teatrale e vivo. Il visore, dunque, è il principale elemento drammaturgico. La narrazione parte inserendo l’individuo entro un’altra realtà, oltremodo estraniante, partendo dal fatto stesso della conflittualità che emerge tra l’apparire di corpi immateriali attorno a sé e il parallelo guardarsi e percepirsi vedendo tuttavia un posto vuoto. Germano, che appare alle spalle dell’osservatore per poi solo a tratti e perlopiù a metà spettacolo salire sul palco, inizia il suo monologo offrendo una serie di luoghi comuni sul confine tra discorso comico e politico e tra elementi di questioni concretamente problematiche e semplificazioni interpretative: tecnologia, alienazione, casta politica, elogio della competenza, contrapposizione tra l’inflazione della pratica politica delle chiacchiere e facile constatabilità della politica del fare. I temi seguono un ritmo crescente, concitato e incitante, ed emergono uno ad uno con inaspettata violenza: linee discorsive che ruotano attorno ai concetti dell’italianità, della minaccia dell’alterità, compiendo uno dei più classici appiattimenti delle fratture orizzontali e di classe e spostando il conflitto o in verticale, in chiave antipolitica e anti-intellettuale, o proponendo un’orizzontalità di contrapposizione in senso xenofobo e razzista. Il crescendo dei toni e del carattere cruento di messaggi e demonizzazioni a noi familiari si accompagnano all’aumentare del coinvolgimento di un pubblico virtuale che sostiene quella che si dimostra essere la proposta di un movimento politico, con applausi, sorrisi e urla tanto taglienti e rumorosi quanto contraddittori: colpisce il tripudio di entusiasmo e il fragoroso inveire di una ragazza sotto chemioterapia e di un uomo disabile, di fronte all’invettiva contro la tutela sanitaria e a favore della selezione genetica e della razza. Solo sul finire, dopo un evolversi tematico che non lascia scanso ad equivoci e di fronte al troneggiare di una svastica sul palco, ci si rende conto, scossi dalla costanza della propria perplessità, del chiaro riferimento al Mein Kampf, dal cui testo è in parte tratta e rielaborata l’opera. La sostanza di ciò che Elio Germano mostra e performa con la solita maestria è sconcertante non solo per l’attualità, ma per la sua lunga durata storica, che trova radici lontane nella spettacolarizzazione politica e nella cultura visuale settecentesca; nella massificazione della cultura e della sfera del politico; nel riproporsi attraverso il tempo e in varia forma storica della funzione politica della comicità e del grottesco. Quest’ultimo binomio rappresenta de facto un pattern qui riproposto, come strumento utile a supportare l’indistinzione ideologica e a facilitare l’incoerenza logica, nonché a metabolizzare e normalizzare un linguaggio duro e pratiche violente prima ancora che si sistematizzino, assunte e con leggerezza assimilate. Viene mostrato un percorso che muove attraverso la costruzione di auto-rappresentazioni che appaiono al tempo stesso come sintomo e difficoltà reale, nel punto in cui incontrano il disincanto politico e il duplice sentimento di impotenza e di volontà di distruzione e potenza. La reificazione di questa antipolitica negativa, plasmata nel rifiuto della classe politica coeva e delle complessità del tessuto sociale, si riflettono nell’illusione di un popolo-uno e nella logica della disintermediazione leaderistica. Occorre d’altro canto sottolineare con attenzione un altro aspetto, sempre seguendo i canali del richiamo storico e la ricca discussione teorica in merito: su simili torsioni della rappresentanza ed elaborazioni semantiche del significante vuoto che è il popolo inteso in modo astratto e aconflittuale, sono germogliati e cresciuti regimi autoritari che spesso, specie in Italia, non hanno vissuto adeguati processi di rielaborazione della memoria. Ciò con molti rischi: dalla non comprensione, all’eccesso di percezione di una distanza non così abissale, al frequente uso strumentale del criterio interpretativo-soggettivo per giustificare, legittimare o far finta di non accorgersi del presentarsi frequente di fenomeni di aggregazione, di gruppi politici, che richiamano più o meno direttamente l’eredità dei fascismi. Non di meno i linguaggi, i retaggi culturali, certi approcci alla realtà sociale e politica non si discostano da questa linea, continuando a solcare in profondità le tracce di quell’ur-fascismo di cui ci ha parlato Umberto Eco nel suo piccolo ed efficace libro Il fascismo eterno. Quand’anche non si possa assolutamente non riconoscere il carattere specifico dei regimi autoritari fascisti, legati a ordinamenti giuridicamente lontani da quello democratico; adottando uno spettro visuale più ampio vanno comunque sottolineati due aspetti: in primo luogo la storicità dei fascismi, che hanno segnato passaggi cardinali, ma che sono pure stati portatori di specifiche eredità politiche e culturali che hanno influenzato tanto visioni del mondo, quanto linguaggi e atteggiamenti attuali; in secondo luogo le relative genealogie. Essi furono in qualche modo una sorta di radicalizzazione istituzionale di torsioni antipolitiche populiste e del rifiuto del pluralismo istituzionalizzato come rifiuto della complessità del popolo sociale. Da questo medesimo rifiuto e anche nelle sue forme più attuali, deriva la declinazione illiberale del populismo, costitutiva del fenomeno, come risposta alle ambiguità strutturali del concetto di rappresentanza democratica. Dunque risulta tutto sommato naturale riscontrare elementi di continuità nella concezione e costruzione del popolo, nella relazione esclusiva che con esso si instaura e nei noti processi di personalizzazione. Ed è bene avere paura, per affrontarla. Ed è proprio la paura di cui ci parla Germano, nel quadro del Festival e grazie anche alla scelta della realtà virtuale. Qui emerge infatti in tutta la sua forza il carattere drammaturgico di un dispositivo che ti costringe, in modo quasi violento, a esser fisicamente presente, di fronte allo sciogliersi di argomentazioni che nel loro farsi iperboliche creano un fastidio, una rabbia, fisicamente percettibile. Eppure sei fermo, ascolti, in una platea reale, come collettività, ma al contempo come individuo immateriale immerso in un pubblico virtuale e complice: lacerato da una sensazione di insostenibile individualità e solitudine nella massa reale; individuo altrettanto solo e doppiamente privo di alcuno spazio di azione ed espressione nella dimensione virtuale, estraniato da una massa che sembra farsi folla e corpo unico e organico. Alienazione, individualità, impotenza, rabbia sono dunque rappresentate come elemento da cui scaturiscono tante banalità del male, ma pure come condizioni cui lo spettatore si trova costretto dal dispositivo, rimarcando un sentire comune a tanti spaccati di umano, che può però aprire scelte e percorsi di diversa cifra personale, sociale e politica. Non solo, il visore diviene ulteriore laccio tra ieri e oggi e di nuovo mezzo di riflessione: mentre l’immaginario si confonde e confligge con la realtà materiale, mentre i canali della conservazione e della riformulazione storica fanno breccia nel pensiero e nella paura individuale, l’individuo si trova diviso tra sensazioni corporee, dimensione digitale, piani di comunicazione e realtà che si ibridano in un’osmosi tra reale e virtuale che in parte aliena, in parte presenta il parossismo di una dimensione molto quotidiana. C’è la paura, c’è l’incertezza e senza dubbio c’è una radicata mancanza, sia per quanto concerne la rielaborazione storica, sia per quel che riguarda la discussione e comprensione delle linee di sviluppo sociale e politico, intrecciate a potenzialità e rischi del virtuale. Sul nesso tra passato e presente vien quindi da chiedersi, dov’è finita l’urgenza della riflessione? Elio Germano sembra chiederselo, chiedercelo e portar lo spettatore ad auto-imporsi tale domanda, grazie a un’opera senz’altro originale, ma soprattutto densa di passione spirito civico.

Pin It