di Olimpia Capitano
LIVORNO. Tra i film presentati in queste giornate di FIPILI Horror Festival c’è Samp. Un film nato dal connubio umano e artistico tra Antonio Rezza e Flavia Mastrella, presentato nell’anno corrente al Festival del Cinema di Venezia durante la Giornata degli Autori, dopo 19 anni di riprese, montaggio, momenti di abbandono e rielaborazione, discussione e riflessione sull’opera. Questo lungo processo è indicativo non tanto per la prassi in sé, quanto in relazione alla crucialità di quanto rappresentato: dopo quasi venti anni le tematiche, le visioni maniacali e i linguaggi che attraversano il film impattano con violenza sulla realtà dell’oggi, proprio perché sembrano emanare direttamente da essa. La mania è senz’altro e anzitutto una linea guida che orienta la scelta dell’esasperazione sostanziale e formale della pantomima, portando a superare una prima impressione di grottesco, la cui accezione manieristica non si sposa con la manifesta esigenza di mostrare al parossismo pulsioni umane rifiutate e nascoste sotto pesanti strati di forma e perbenismo.
La violenza diventa qui uno strumento fondamentale per l’espressione della tendenza maniacale: la narrativa del film si struttura proprio intorno alla violenza, alle sue pratiche materiali e culturali, alla sua forza distruttrice, creatrice e provocatrice; ma anche tutta l’impostazione dell’opera, immagini e linguaggi scelti, sembrano voler rimarcarne la funzione fondamentale. Un’arte violenta dunque che si impone allo spettatore, che fuoriesce da sistemi linguistici ed estetici convenzionali, dai canoni della fruibilità pop. Viene così costruita, nell’intreccio tra tanti livelli e forme di linguaggio, una sorta di comunicazione trasversale e talvolta involontaria, con un enorme potenziale protestatario e di denuncia che passa dal disvelamento del reale attraverso la sua esagerazione ma che spesso, purtroppo, non trova sufficienti canali di circolazione, scontrandosi con un sistema di mercato e profitto cinematografico antitetico rispetto a lavoro e manifesto poetico dei due artisti. Il carattere antiproduttivo, che emerge dalla stessa lunga durata della fase di preparazione di Samp, è un’altra cifra fondamentale per leggere le scelte autoriali, la sostanza del film, la sua valenza anticanonica, libertaria, culturalmente antisistemica, tematicamente di amplissimo respiro. Approfondendo più nel dettaglio occorre dare uno scorcio di ciò che ci viene mostrato: la storia tragicomica di un killer a sangue freddo di un paesino pugliese, eroe negativo, emblema di pazzia, ma pure di tagliente lucidità esistenziale, che non sta mai meglio, che ammazza o ama. Samp, pur venendo identificato come un folle dai suoi stessi compaesani, è inserito in una realtà distorta, laddove impostazioni culturali, tradizionalismi, rigidità sovrastrutturali si ibridano e polarizzano con lavoro e profitto, creando un quadro estraniante ma in qualche modo sempre coinvolgente e familiare. La vicenda principia con l’omicidio a sangue freddo della madre e mostra sin da subito alcuni dei nodi cruciali: la dialettica tra morte e vita; il rifiuto delle origini; il peso dell’eredità familiare; la dimensione controversa della scelta rispetto al mettere al mondo, allo starci, al privarne; il ruolo materno e la visione di madri come portatrici di male, colpevoli di creare bambini innocenti che a loro volta sono destinati a crescere in una gabbia entro cui maturar le proprie colpe. Partendo da qua, la morte scorre nel film, in tutti i modi, per tutti i soggetti, indistintamente: donne, uomini, bambini, uccisi per lavoro, per ira, o ancora per far loro un favore. Lo stare al mondo è un caso e il valore della vita è dubbio. Come si è detto, però, Samp o ammazza o ama e l’amore, la corporeità e la sessualità sono altri aspetti problematici che definiscono tutta la narrazione: la ricerca continua di una donna ideale che prima sembra essere un’amante che fa sinuosamente ondeggiare una macchina facendo l’amore, ma che è pura invenzione, prodotta da un uomo che mentre scuote violentemente la vettura, conscio della non esistenza di una donna in qualche modo ideale, ne crea una, immaginaria e immaginata. Poi è la volta di una donna tanto indifferente da darsi ma mai da voler mostrare il proprio volto se non di profilo. Infine il soggetto d’amore diventa una figura, dapprima solo immaginata, che sta dietro il suono di aspirapolvere proveniente da un focolare domestico, simbolo della tradizione e di un mondo che quando si chiude dentro alla sera, è in grado di lasciar tutto il male fuori. E se fosse anch’esso stesso il male? Torna infatti ancora il tema familiare, il rapporto conflittuale con qualcosa che da un lato è rifiutato, osteggiato, fino a portare a scardinarlo attraverso la morte; dall’altro è ambito in maniera ossessiva. Questo filone si intreccia poi con il discorso sulla tradizione, altro e forse principale punto dell’opera. Il killer uccide i personaggi simbolo del Paese, per scardinare i baluardi di una cultura che resiste e che il direttore vuole cancellare con la morte e sostituire con non ben definiti spazi di maggior agibilità per il mercato ma, al contempo, la tradizione è quanto Samp ricerca e osteggia, entro una dialettica che sembra essere il contraddittorio fuoco che alimenta sprazzi di follia. E in effetti un altro personaggio, uno scozzese felice perché arrivato in un luogo nuovo abbandonando le sue origini, passeggia per il Paese affermando a gran voce questa sua conquista, mentre tuttavia continua a indossare il kilt, simbolo della sua terra. Quando poi un suono di zampogna inizia a invadere le strade della cittadina, anche la felicità del forestiero si infrange contro la forza dell’origine che torna ad annebbiare il pensiero, a condizionare comportamento e socialità, a veder crescere tutte le proprie idiosincrasie fino a perdere ogni controllo e forse a ritrovarlo solo attraverso l’uccisione di chi si è fatto simbolo di un ben più pesante portato: lo zampognaro. Lo sciogliersi estremamente coerente di tutte queste dinamiche trascina dentro un vortice di tensioni che se nel film sono presentate platealmente, nella quotidianità sono linee schizofreniche che attraversano il nostro agire in modo più o meno inconscio, che si faccia finta di niente o meno. Rezza e Mastrella si servono della finzione narrativa proprio per non far finta.