PISTOIA. Ci voleva poco a farlo incazzare, anche se si calmava con la stessa velocità con la quale perdeva la pazienza; bastava una battuta, anche già sentita e gli tornava il sorriso. Perché Enzo Marchettoni esigeva che i suoi clienti si comportassero a modo come si comportava lui. Da quelli anziani, con i quali aveva diviso e condiviso la giovinezza, a quelli delle generazioni successive. E quando qualcuno sgarrava, digrignava i denti e bofonchiava sottovoce, augurandosi che la volta successiva, per quegli ospiti sgraditi, non ci fosse posto. Nel suo locale non si urlava, non si usava un linguaggio scurrile e non si infastidivano gli altri clienti, anche se poi, quasi sempre, a pranzo e a cena, c’era la solita gente e tutti sapevano tutto degli altri, virtù e vizi. Sulle tavole apparecchiate della sua trattoria, quella di San Vitale, o degli Anarchici, scomodando una leggenda cittadina, insieme alla tovaglia, alle posate e ai bicchieri, il cestino del pane, con tanti sacchetti di grissini quanto il numero dei commensali, arrivava sempre dopo. Prima, occorreva ordinare, aprendo i menù conservati in vecchie cartelle in vilpelle amaranto e verde scuso e scritti, giorno su giorno, con la macchina da scrivere, corredati anche da qualche refuso, corretto con il bianchetto o con una X ribattuta sopra, se visto in tempo.
Prezzi modici, che con l’avvento dell’euro non erano minimamente lievitati: ogni piatto, dal 2.000 in poi, costava quello che costava ai tempi della lira, diviso 1.936.27. In cucina, le sue donne: Patrizia, la moglie e Serena, la loro figlia, che preparavano i piatti con sapienza, arte e cura, consapevoli che il boss era sempre attentissimo e che ogni minimo errore, anche semplici distrazioni, non sarebbero passate inosservate. Lavorava come aveva sempre fatto, sin da giovanissimo e il progresso, tecnologico e alimentare, non lo aveva minimamente riguardato. Il suo locale, in via Puccini, a Pistoia, alle porte della Ztl, si presentava come cinquant’anni fa, con gli stessi poster, le stesse cornici, la solita identica disposizione dei tavoli, il solito odore. Così come le sue pietanze; una cucina semplice, essenziale, con alcuni piatti tipici da leccarsi le labbra, serviti in porzioni giuste, quanto basta per sfamarsi. Senza sofisticazioni, senza strafare; d’inverno, mele e pere, d’estate, pesche, albicocche e uva in autunno. Una a testa, al massimo due, ma su richiesta e senza servirsi da soli, anche se la frutta era lì, appoggiata sulla madia nel salone. Il giorno di riposto era quello comandato dal calendario: la domenica e tutte le festività in rosso, senza deroghe, senza eccezioni. Stamattina, 11 marzo, Enzo Marchettoni è morto. Era ricoverato da alcuni giorni in ospedale a causa di questo maledettissimo virus: stanotte, un improvviso peggioramento e stamani, il suo cuore, debilitato da alcune patologie che lo perseguitavano da tempo, ha deciso di non volerne più sapere di combattere. La notizia è iniziata a circolare tanto velocemente, quanto mestamente, perché stamani non è soltanto morto un abile, adorabile, onestissimo oste; stamani, si è consumato un lutto che oltre che gettare nello sconforto i suoi familiari, rappresenta la fine, dolorosa ma inevitabile, di una meravigliosa pagina di storia non solo culinaria e sulla quale, fedeli e fedelissimi frequentatori, poeti, navigatori, impresari, ma anche tanta bellissima gente comune, compreso qualche folkloristico scappato di casa, hanno scritto, anche senza penna, parole dolcissime, incancellabili. Stamani, in un giovedì come tanti altri, la Trattoria Marchettoni ha chiuso la serranda, ma non fino alla fine della pandemia: ha chiuso per sempre.