FIRENZE. L’unica cosa decifrabile e comprensibile, e per alcuni versi scontata e doverosa, è stato l’omaggio reso al dolore e al terrore del popolo ucraino, con il suono della sirena latore di imminenti bombardamenti, presagi atomici. Così la Pergola, a Firenze, ha smesso di confabulare con quello seduto accanto e si è accomodato nella poltroncina. Da quel momento in poi, la comprensione – scomodate pure tutti i piani semantici di vostra conoscenza che volete; non ne trarrete un ragno da un buco – è letteralmente scomparsa, completamente sostituita da un livello, indotto, di altissima emozione, articolato su una vastità di angolazioni difficili da memorizzare e soprattutto catalogare. Elenit, ideato e diretto da Euripides Laskaridis, non è una rappresentazione teatrale, ma una prova tecnica di trasmissione post bellica. Anzi, pensandoci bene e meglio, potrebbe addirittura essere un’alternativa lisergica alla distruzione totale, finale, quella che, nostro malgrado, potremmo essere costretti a vivere e subire. Non stiamo usando parole senza senso e luogo per aggirare l’ostacolo dei nostri limiti: non abbiamo capito nulla, ma nel senso più inverecondo del termine. In compenso, però, ci siamo lasciati trasportare, fidandoci ciecamente, degli omini sul palco, in questo viaggio spaziale, iperuranico, dove si perdono i connotati umani e le apparenti bestialità sono ormai parte integrante della comunità dei sopravvissuti.
La pala eolica che primeggia e padroneggia sul palcoscenico cambia repentinamente velocità e dunque efficacia termica - con le smorfie sgradevoli dei paesaggisti - solo in alcuni specifici momenti, ma senza che nessuno, tra il pubblico, ne afferri il senso comunicativo. Per non parlare del signor bonaventura, il protagonista, che potrebbe essere, perché no, un personaggio socratico o platonico dell’Acropoli, visto che l’intera compagnia è greca e come tale, i conti con un passato così ingombrante non si possono non fare. Ma Elenit – così come si legge nelle note - non è l’Elena che avremmo potuto pensare (e alla quale abbiamo pensato, provando goffamente a incastrarla con quel che succedeva sul palco); sta per eternit, l’economicissimo materiale industriale di cui si è abbondato nel mondo dagli anni ’50 agli ’80, quello estratto a dismisura a bassissimo costo anche quando la chimica ha ammonito il mondo dichiarandolo portatore mostruoso di mesotelioma, una delle forme più spietate di cancro: a Marghera e a Pistoia, l’amianto ha fatto stragi. Ed è un paradosso che un materiale eterno non lo sia affatto; che anzi lo si debba disincagliare dal resto con la precauzione, vitale, di non depositare nell’aria le sue polveri sottili, quelle che si insinuano nei polmoni e fanno strike. Stiamo uscendo dal seminato, è vero, ma di fronte a uno spettacolo di questa portata, ci è forse consentito, obbligandoci quasi a tergiversare, in lungo e in largo, su tutti gli effetti collaterali di una rappresentazione assolutamente imperdibile. Abbiamo omesso i nomi dei dieci protagonisti, tutti greci, difficili da pronunciare, ma anche da scrivere, così come faremo con tutte le persone addette al lavoro; un altro esercito, ellenico, naturalmente. Per non parlare poi delle produzioni: una schiera internazionale che ha fatto a gomitate affinché il proprio nome comparisse tra quelli che ci han creduto. Ed è comprensibile, visto che si tratta di un vero e proprio capolavoro, con questi dialoghi in vocalese straordinariamente distorti da effetti fonici che ne folklorizzano le conversazioni. La scenografia è monumentale: un Matrix dell’800, con damigelle ciraniche e una Biancaneve che, a cadenze da tormentone, sviene improvvisamente, cadendo, miracolosamente, con il viso su un morbido pilastro di cellophane, con il quale si presenta sul palco. C’è una batteria ricoperta di pelle di daino, un dinosauro che pare un tacchino, luci stroboscopiche che illuminano la sala e una sagoma semovente, cangiante; c'è un dj, dei nostri giorni, che non smette un attimo di scratchare, anche quando le luci non lo impongono all’attenzione del pubblico. Equamente suddiviso, quest’ultimo, tra esaltatori e dissacratori. Alla Pergola, infatti, per la prima volta da anni, si vedono orde di freak con neonati al seguito, addirittura allattati poco prima dell’inizio sugli scalini del Teatro. Loro sono quelli che restano abbagliati; sono lì per questo, per farsi flashare. Una buona fetta degli altri invece, della nostra età, ma con meno anche comprensbile duttilità al nuovo che avanza, nonostante non possano e non vogliano non riconoscere alla compagnia una preparazione ginnica e spirituale notevoli, stentano a promuoverlo, giurando di maltrattarlo appena ne avranno la possibilità e scuotendo il capo, all’uscita, con il beffardo sorriso sulle labbra e pronunciando la frase nella quale, complessivamente, ci si sono dovuti riconoscere un po’ tutti: non c’ho capito un cazzo. Abbiamo omesso una miriade di dettagli, non certo per non spoilerarvi qualcosa – sono tutti maggiordomi, sono tutti assassini, ma ognuno ha un alibi di ferro -, ma solo perché non siamo stati in grado di consegnarveli nella giusta scansione di una doverosa consecutio temporum. Chi lo vedrà, Elenit (si replica stasera e domani pomeriggio, 6 marzo) potrà capirci. E perdonarci. Perché avrà goduto. Tanto.