di Alessandro Giovannelli

PORRETTA (BO). Siamo soltanto al giovedì. Il lungo fine settimana del Porretta Soul Festival è appena cominciato, ma già, intorno al Rufus Thomas Park, tutto è lì, al proprio posto, a ricordarci che Porretta è sempre Porretta: il clima di festa, la musica nell’aria, le bancarelle, l’odore di carne alla brace verso la piazza centrale. Sul Rufus Thomas Cafe Stage, si alternano, una dopo l’altra, band e orchestre di rhythm & blues, sempre di livello: qui, ovunque, è la musica a farla da padrona. In ogni angolo della cittadina, si ascolta e si respira soul. A un certo punto, tra la folla, prima del concerto, intorno alle 19, un capannello di ragazzi richiama la nostra attenzione. MonoNeon, l’ospite speciale di questa edizione del festival, previsto come chiusura di questa serata di apertura, sta passeggiando tra i banchi dello street food. Il suo look è molto diverso dalla consueta eleganza, pur sempre sopra le righe, dei classici soulmen che hanno calcato, nel corso dei decenni, il palco del Rufus Thomas Park. E non passa certo inosservato: passo lesto e sguardo rivolto verso il pavimento, in dosso una trapunta patchwork dai colori sgargianti, non propriamente estiva, grossi stivali e cappuccio sulla testa. Non è una novità, la tradizione vuole che a Porretta pubblico e musicisti si mescolino in un tutt’uno. È una delle apprezzatissime tipicità di questo festival. La novità sta nei giovanissimi che, circondato il proprio beniamino per chiedergli autografo e foto di rito, ci danno un saggio, ancor prima di iniziare, di quanto sarà intergenerazionale il pubblico di questa serata. Siamo al 35° anno, un grande traguardo che ci racconta della longevità di questo festival e della caparbietà, della passione e della visione del suo creatore e direttore artistico, Graziano Uliani. Poche rassegne sono state capaci, negli anni, di fidelizzare il proprio pubblico quanto e come il Porretta Soul Festival. Prima ancora di passare in rassegna i vari artisti che si sono alternati sullo storico palco di Porretta, vale la pena fare una premessa: questa serata ha messo in scena un formidabile ed entusiasmante mix di soul classico e di contemporaneità. La musica rispecchia il pubblico. E viceversa. Mai, come in questo esordio dell’edizione 2023, ho avuto la percezione di un festival che sta davvero costruendo il proprio domani. Con intelligenza e qualità. Ma, soprattutto, con grande lungimiranza. Intorno alle 20.15, il gran cerimoniere, Rick Hutton, dà il via alle danze. Si apre con gli irlandesi Eamonn Flynn & Conor Brady, coadiuvati dalla solidissima sezione ritmica della Anthony Paule Soul Orchestra, formata da Kevin Hayes alla batteria e Endre Tarczy al basso. Il loro set è un omaggio alla colonna sonora del film The Commitments, della quale Flynn e Brady sono stati tra gli esecutori, e che ha venduto ben 14 milioni di dischi in tutto il mondo. Tra i vari pezzi in scaletta, una bella interpretazione di Jealous Guy di John Lennon, Try a Little Tenderness, il pezzo del 1932 assurto a standard della musica soul con la successiva versione di Otis Redding, caratterizzato da una bella intro di Flynn al tin whistle, in stile irish, e una Brickyard Blues, il pezzo del 1974 di Allen Toussaint, che ha messo in risalto le qualità pianistiche e interpretative di Flynn. In chiusura, all’immancabile one more time di Rick Hutton, il quartetto ha risposto con una trascinante Mustang Sally. A seguire, l’esibizione della Anthony Paule Soul Orchestra. Si tratta di una vecchia conoscenza per il pubblico di Porretta, da anni, house band del festival. In completo viola e nero, hanno eseguito The Memphis Train di Rufus Thomas, per poi dare il benvenuto sul palco a Terrie Odabi. Anche per Terrie, per l’occasione in abito nero, si tratta di un gradito ritorno e, lo si percepisce negli scambi tra un pezzo e l’altro, è legata da un rapporto di profonda intesa col pubblico di Porretta. Le sue sopraffini qualità di interprete trovano piena valorizzazione nelle esecuzioni della band diretta da Anthony Paule, capace di sottolineare i momenti di maggiore intensità emotiva con passaggi da forte a piano e viceversa e con intermezzi strumentali sempre al servizio della musica e del feeling. Particolarmente sentito il tributo a Wee Willie Walker, a lungo sodale di Anthony Paule e cantante della Soul Orchestra, con After a While e Hate Take a Holiday. Splendida, la versione di Why (Am I Treated so Bad), dei The Staple Singers, e il gran finale, con Gentrification Blues. A riguardo di quest’ultimo pezzo, Terrie ha raccontato di aver tratto ispirazione dal processo di impoverimento dei quartieri popolari della sua città, Oakland in California, in conseguenza della gentrificazione messa in atto dai milionari della vicina Silicon Valley. Insomma, il blues riportato alle sue origini. Canto di dolore, disperazione e, talvolta, denuncia sociale. L’uscita dal palco di Terrie e della Anthony Paule Soul Orchestra segna una sorta di passaggio di consegne: da venerdì, ad accompagnare gli artisti che si avvicenderanno sul palco, saranno gli altrettanto validi Bo-Keys. È la volta dei Lehmanns Brothers. Già ospiti della più grande vetrina musicale europea, il Montreux Jazz Festival, nel 2017, hanno aperto, tra gli altri, a Macéo Parker. Rick Hutton, scherzando sul loro nome, ci ricorda che non si tratta della società finanziaria americana, tristemente nota per la bancarotta del 2008. Sono un gruppo di giovani musicisti francesi provenienti dalla cittadina di Angoulême. La loro musica è un blend di funk e nu-soul con influenze house e hip-hop, un vero e proprio distillato di energia e ritmo. Il cantante/organista, capace di portare la propria voce su registri molto alti e di far pulsare il suono del suo Hammond con un groove davvero trascinante, ha infuocato gli animi dei più giovani e, nell’ultimo quarto d’ora del loro set, l’intero Rufus Thomas Park era in piedi a ballare. Anche questo sono le banlieu francesi. Avenue Lehmann come i sobborghi di Parigi. Le periferie d’Europa parlano una lingua giovane, fresca. MonoNeon (nella foto), invece, viene da Memphis. A Porretta non si era mai visto qualcosa del genere. Naturalmente, questa affermazione non intende connotare, né in positivo, né in negativo, l’esibizione dello stesso MonoNeon, né quelle delle tante leggende che si sono esibite a Porretta nel corso di tre decenni e mezzo. Si tratta, invece, di una semplice constatazione: non somiglia nessuno, o almeno non ai tanti illustri esponenti del Memphis Sound, che da sempre illuminano le serate d’estate sull’Appennino bolognese. MonoNeon è un fenomeno. Lo è per la sua apparenza alquanto eccentrica, e lo è perché suona il suo basso elettrico in maniera straordinaria. Lo è perché, come alcuni dei più grandi interpreti del 4 corde che, nel suo caso sono 5, il suo basso non si limita a scandire la ritmica. È un vero e proprio strumento solista, al pari, o forse anche più, delle chitarre e della tastiera. Eppure, la sua band ha qualità davvero eclatanti. I chitarristi, armati di una Telecaster e uno Strato, si sono lanciati in furiosi assoli. Le tastiere, durante le imprevedibili divagazioni del basso, hanno tenuto botta, insieme alla batteria, con parti ritmiche rocciose. Ma torniamo a lui, MonoNeon. Figlio d’arte – suo padre è Dywane Thomas, già musicista di Rufus Thomas e frequentatore di lungo corso di Porretta –, Dywane jr. usa il suo basso come fosse una magic box, dalla quale estrae i suoni più disparati, con ampio uso di effettistica. MonoNeon è stato definito, non a caso, il più grande fottuto bassista elettrico nientemeno che da Flea dei Red Hot Chili Peppers. Non male davvero. Nel complesso, la musica della band risulta sofisticata, con richiami che vanno da Frank Zappa, per le intenzioni improvvisative, a Prince (del quale MonoNeon è stato uno degli ultimi bassisti), in una costante rivisitazione tra alternative rock e fusion in chiave contemporanea. Il pubblico delle 1.30 è il suo: è giovane, ama ballare e, nonostante la tarda ora, si muove incessantemente al tempo del suo groove. La sua Invisible, brano del 2020, uno di quei pezzi che ti entra subito in testa e non ne esce più, è stato uno dei momenti più entusiasmanti della sua ora abbondante di show. Bellissimo. Porretta ci ha regalato, ancora una volta, grandi emozioni. E se, come si suol dire dalle nostre parti, la sete la si toglie col prosciutto, ci ha suggerito infinite varietà di salumi ed affettati, prelibati, da assaggiare. Ci ha dato spunti, a noi che ne cerchiamo disperatamente sempre nuovi, aprendo territori enormi da esplorare. L’occidente, quello delle grandi praterie ignote dell’America dei tempi che furono, è tutto da scoprire. Ha il suono del sud. Graziano e Porretta ci hanno indicato la strada. Noi, tornando verso casa, nella notte tiepida delle nostre montagne, ringraziamo di cuore. Evviva Porretta. Lunga vita al soul.

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