PORRETTA (BO). Stamani, a parte poche categorie di lavoratori – fornai, infermieri, agenti dell’ordine (anche al femminile, eh, per carità, ma senza asterischi) -, la maggior parte di tutti gli altri si alzerà quando lo riterrà opportuno, senza dover interrompere quel fastidioso trillo di sveglia che ricorda a tutti che la vita, quella che non avremmo voluto fare, ci richiama sadicamente all’ordine. Per questo, il sabato del Festival Soul, al Parco Rufus Thomas di Porretta, è, da quando è nata la manifestazione, sempre una festa nella festa, come nel villaggio di poetica memoria. Del resto, succede così ovunque, nel mondo, anche se la presa di coscienza personale e collettiva è stata brevettata solo nel 1829, quando Giacomo Leopardi la certificò nei secoli dei secoli, con uno dei suoi innumerevoli capolavori. La festa dura appena quattro giorni a Porretta e tra questi, quella del sabato, deve necessariamente scatenare l’inferno (Meda docet). E chi meglio della camaleontica, sopraffine, polivalente, energica Robin McKelle (la foto, naturalmente, è di Fiorenzo Giovannelli)? Per capire la sua versatilità, basta andare a vederla all’opera il prossimo 23 ottobre, al Blue Note di Milano, come del resto è successo, mesi fa, a Parigi. È il jazz il suo primo amore, dal quale, per fortuna, non ha alcuna idea di prendere le distanze, ma è il diaframma ad averle suggerito prima, e imposto poi, di cantare anche altro e di farlo con la stessa lucida, esemplare professionalità, cambiando, leggermente, l’impostazione scenica; l’ugola e l’abbigliamento s’adeguano al contesto e lei, che conosce bene il pubblico, sa come aizzarlo. Ieri sera, dopo l’intimismo di Curtis Salgado e la coppia circense dei The Blues Paddlers, entrambi supportati dalla direzione musicale dei The Bo – Keys, la scena è stata affidata alla quarantesettenne americana che non ha avuto alcun problema a capire cosa avrebbe dovuto fare per infoiare come si deve l’emiciclo appenninico. Del resto, dopo dieci album, un’infinità di esibizioni, quelle che l’hanno battezzata come la reincarnazione di Ella Fitzgerald, ma anche e soprattutto la sua propensione a non essere soltanto una, ma molte, tipo Aretha Franklin, ad esempio, o Tina Turner, ma anche Janis Joplin, beh, le ci è voluto un attimo, scorgendo la platea che pendeva dai suoi input, a stabilire cosa avrebbe dovuto fare. Pur calzando un paio di sandali con una zeppa più adatta ad altri intrattenimenti artistici, Robin McKelle ha stregato la platea, con gorgheggi, acuti, bassi e insinuazioni feline, spolverando una piccola ma esaustiva parte del repertorio delle canzoni più leggendarie che indimenticabili. Gli spettatori non potevano che gradire all’eccesso, lasciando nei rispettivi cassetti dei loro sogni infranti tutte le frustrazioni, liberando e liberandosi, almeno per un po’, in un sabato di quelli da ricordare, i propri demoni. Tra molti che hanno accompagnato la voce della meravigliosa statunitense, anche un bronzo di Riace appositamente assoldato – siamo pronti a scommetterci – dalla direzione artistica della manifestazione, che oltre a possedere un viso scolpito nella bellezza, si è cimentato in una danza propiziatoria al limitare del palcoscenico, tra gli sguardi, di sottecchi, ma inequivocabili, di tutti gli altri, confusamente mescolati tra l’invidia dei maschi e il desiderio delle femmine. Stasera, ultima notte di Soul, di musica, scusate (portatevi una maglia, dateci retta; dopo il tramonto, l’aria, si fa particolarmente frizzante). Poi, via l’impalcatura, il popolo della notte e quell’aria unica e inimitabile del Festival. Graziano Uliani, fatti i conti con il proprio entourage, si passerà, per la trentacinquesima volta, la mano sul cuore e dopo i debiti ringraziamenti si metterà subito all’opera per il Festival numero trentasei, che somiglierà, maledettamente, tutti quelli che l’hanno preceduto e sarà, verosimilmente, parente stretto di quelli che verranno.

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