PISTOIA. Accipicchia, se è bravo! Innegabile. Ascoltare Stefano Massini mentre inanella un estratto di alcuni sogni/studi/terapia, che sono diventati, dopo un serissimo approfondimento durato oltre dieci anni, L’interpretazione dei sogni, mimandone, addirittura il linguaggio del corpo dello psicanalista più famoso di ogni tempo alle prese con i suoi pazienti di turno è, oggettivamente, cosa assai piacevole. Che diventa ancor più gradevole, rasentando la perfezione epicurea, grazie alla compresenza, sul palcoscenico del Teatro Manzoni (si replica oggi, domenica 17 febbraio, alle 16) delle musiche di Enrico Flink eseguite dalle tastiere e dal trombone di Saverio Zacchei, dalle chitarre di Damiano Terzoni e dal violino di Rachele Innocenti. Perché lui è un narratore invidiato da molti onemanshow, un affabulatore con pochi rivali, un profondo e dotto conoscitore degli argomenti dei quali si permette il lusso di trattare; lo fa con estrema competenza, elegante precisione e anche se, come si legge sulle note di sala, figlie di una comune impressione, è annoverato tra gli intellettuali meno autocelebrativi in circolazione, si capisce lontano un miglio, invece, la natura dei suoi approfondimenti didattici universitari, ma soprattutto i suoi studi giovanili, quelli liceali ginnasiali e classici del Dante di Firenze, dove è nato e dove, siamo pronti a scommettere, abbia frequentato il corso della sezione A, massimo, B. La piacevolezza estetica del suo slang sempre tenuto sotto rigido, ma elegante, controllo, l’accortezza delle movenze, esposte a qualche aulicismo decisamente teatrale, la precisione, quasi tassonomica, di date, posti e circostanze hanno, con disinibita e gradevole accortezza, letteralmente spodestato il nucleo teatrale sostituendolo con uno da simposio, nel quale sono soltanto mancate le bevande e le vivande da distribuire agli spettatori. È così ammaliante ascoltare le conversazioni di Stefano Massini che lo snocciolare di personaggi che si sono accomodati sul lettino d’analisi austriaco ha trasformato un esauriente saggio psicanalitico, correttamente puntellato da nozioni e agganci, in uno spettacolo, con un fragoroso battimani conclusivo, facendo dimenticare, del tutto, al pubblico, che al di là di una maestosa memoria e di un intrigante sciorinare di ricordi inconfessabili se non sdraiati al cospetto della divinità psichiatrica, quello di ieri sera tutto sia stato fuorché teatro. E non certo per una deprecabile o incondivisibile morale, conclusione, equazione, ma per la sua totale assenza. Non lo scriviamo al termine di una serata noiosa; anzi: in più di una circostanza ci siamo lasciati completamente risucchiare dalla vicinanza dei sogni di alcuni dei pazienti di Sigmund Freud con quelli che, quando li ricordiamo, facciamo anche noi; la paura del buio, la mitizzazione dei nostri padri, il nostro personalismo/egoismo che trasforma le nostre abitazioni in ristoranti/alberghi, gestiti non da locandieri, ma dalle nostre mogli, madri dei nostri figli. Un’accurata ed esaustiva casistica onirica che merita, senza condizionali, un serio approfondimento, che ognuno di noi, e noi per primi, faremmo meglio ad affrontare molto seriamente, prima che sia troppo tardi. Siamo giunti a questa conclusione quando il quarantanovenne mattatore fiorentino, nel bel mezzo del crepitio degli applausi, ha voluto ricordare la nuova immane tragedia consumatasi, il giorno prima, su un cantiere fiorentino, dove cinque operai, contrattualizzati chissà sotto quale forma, hanno perso la vita a causa dell’improvviso crollo di un’impalcatura. Lo ha fatto – e questo ci ha quasi obbligato a fare riflessioni altre - riproponendo la canzone che ha presentato, la settimana precedente, al Festival di Sanremo, che noi, come tutti gli anni, compresa l’edizione nella quale fummo inviati dal Corriere di Livorno, non abbiamo visto.