di Alessandro Giovannelli
PORRETTA (BO). Porretta Soul vuol dire emozioni. Talvolta, tanto intense da scolpirsi nella memoria di chi assiste alla celebrazione di questo piccolo grande rito. Sabato, il rito, si è ripetuto ancora una volta. E le emozioni sono state l'ingrediente principale per i circa duemila iniziati. Ma andiamo con ordine. A Porretta, come sempre, si fanno le cose sul serio. La piccola cittadina immersa tra i monti e i boschi dell’Appennino tosco-emiliano, viene definita Soulsville Europe, non a caso. È una piccola – piccolissima – Memphis. E, si sa, a Memphis e, di conseguenza, anche a Porretta, i festival e i concerti soul si fanno come Dio comanda. La Memphis Music Hall of Fame Band, la house band di questa trentaseiesima edizione del Porretta Soul Festival, è una house band appunto come Dio comanda; e si distingue per il groove formidabile e per la solidità che mette al servizio della musica e dello spettacolo. Lo si era visto già nella notte di venerdì, quando la band capitanata dal music director KC, Kurt Clayton, produttore, autore, arrangiatore, magnifico tastierista, già collaboratore di nomi del calibro di Chaka Khan, Stevie Wonder e George Clinton, come opportunamente ricordato dal gran cerimoniere, Rick Hutton, ci ha fatto vedere di che pasta è fatta. Lo abbiamo visto quando hanno accompagnato Jonathan Ellison e Jerome Chism; ma, prima ancora, lo avevamo visto quando si sono presentati al pubblico di Porretta e ci hanno mostrato le grandi qualità canore di Shunta Mosby, Dani McGhee e Candy Fox, le quali, nel proseguo della serata, hanno ricoperto il ruolo di coriste. Ma torniamo a sabato. E, non ce ne vogliano, mettiamo un attimo da parte la house band di Memphis, dalla quale torneremo tra poco, volentieri, per raccontare la seconda (ampia) parte della serata. Perché il terzo appuntamento col PSF, edizione 2024, si è aperta con Alabama Mike, accompagnato dalla francese Soul Shot Band e nientemeno che Eamon Flynn alle tastiere, cioè l’hammond e il piano dietro alla colonna sonora da 14 milioni di dischi venduti di The Commitments. Alabama Mike è ben più di un semplice opening act. Sulla sua provenienza, non c’è molto da specificare. Ciò che, invece, merita di essere sottolineato è che Mike dall’Alabama, nativo di Talladega, classe 1964, da tempo vive nella Bay Area di San Francisco e proprio da quelle parti si è fatto conoscere come una delle voci più importanti del blues della West Coast. La sua storia presenta diverse connessioni col festival: da una decina d’anni a questa parte, tra le sue collaborazioni, ne figurano alcune con nomi familiari agli avventori del Soul; su tutti, Anthony Paule, uno di quelli che non ha bisogno di presentazioni, direttore della house band porrettana per molti anni; ma anche il bravissimo e funambolico batterista D’mar, oltre alla leggenda Bernard Pretty Purdie. Se non bastasse per capire con chi abbiamo a che fare, Mike ha collaborato anche con Rick Estrin, con Jerry Jemmott, bassista blues di grande (e meritata) fama, e uno degli idoli assoluti del sottoscritto, e con Kid Andersen, musicista e produttore, gran capo dei Greaseland Studios di San Jose, California, collaboratore anche di Chris Cain, un altro che sa orientarsi bene sulle strade polverose del blues, tra le brume della baia di San Francisco e dintorni, spettacolare chitarrista e cantante, la cui performance ha illuminato la serata di giovedì, all’apertura di questa nuova edizione del PSF. Il set di Alabama Mike, dicevamo, non è stato una semplice apertura: ha eseguito diversi pezzi dall'ultimo album Stuff I've Been Through, datato 2023, un disco che vale la pena di essere ascoltato dall’inizio alla fine. Provare per credere. Dal vivo, la Soul Shot Band riesce a reggere dignitosamente il confronto coi mostri sacri che hanno lavorato alla realizzazione del disco (oltre ai già citati Jemmott, D’mar, Estrin, Andersen, anche un certo Jim Pugh alle tastiere). Notevole la versione di Can't Stay Here Long, dal disco del 2016 Upset the Status Quo. Dal recente Stuff I've Been Through, vale la pena citare Goodbye Tamika, oltre alla title track e il bel funky (auto)ironico, con un incedere del cantato che, in apertura, pare quasi alludere ad un rap, dal titolo eloquente, Fat Shame. Nina Simone diceva, Alabama's gotten me so upset / And everybody knows about Mississippi, goddamn. Alabama Mike, verso la fine, ha eseguito Mississippi. Ma niente a che vedere col messaggio lacerante della Simone: per Mike, I’m Going Back to Mississippi è un ritorno assai meno doloroso. Con grande puntualità, intorno alle 21.30, arriva il momento della house band. Lo dicevo poc'anzi e lo ribadisco: sono formidabili. Vediamone la formazione. Oltre al direttore musicale e tastierista, Kurt KC Clayton, alle chitarre troviamo Garry Goin e Steve Bethany, al basso Dwight Sanders, all’organo e tastiere Darryl Sanford, alla batteria Carlos Sargent, al sax tenore Alan Clayton, fratello di KC, alla tromba Paul McKinney, al trombone Victor Sawyer. Le tre splendide Ladies of Soul from Memphis sono Shunta Mosby, Dani McGhee e Candy Fox. Tocca proprio a loro, dopo un’introduzione strumentale della band e un breve intermezzo di Rick Hutton sulle note di Everybody Needs Somebody to Love, dare inizio ad un set che, con l’alternarsi dei prestigiosi ospiti, si rivelerà magico. Il primo è Gerald Richardson, che dimostra tutto il proprio valore con una versione di Ain't No Love in the Heart of the City di Bobby Blue Bland da manuale del soul: per la voce, l'interpretazione e, ancora, il feeling della band. L’esibizione di Richardson, però, prende presto una piega inaspettata e particolare: su Naturally, pezzo originale di Gerald, e Simply Beautiful di Al Green, un certo numero di ballerine del posto si uniscono allo spettacolo, facendo innalzare la temperatura della performance; e non stiamo parlando di clima. È poi il momento di Billy Vera. Che dire di lui? Più che un musicista, è una vera e propria leggenda vivente, una sorta di icona pop, capace di attraversare il firmamento dello spettacolo del secondo ‘900 con una grande carica di talento ed eclettismo. Oltre che cantante ed autore, Vera si è cimentato anche col cinema e con la televisione in qualità di attore. La sua storia musicale inizia negli anni ’60. In quegli anni, scrisse Don’t Look Back, brano successivamente reinterpretato da Robert Plant. La svolta arrivò quando Jerry Wexler lo mise sotto contratto con l’Atlantic Records e scrisse Storybook Children, canzone d’amore che incise insieme alla cantante nera, Judy Clay. Questo è un passaggio di rilievo per questa narrazione, perché proprio due pezzi originariamente cantati con la Clay, Country Girl, City Man e la già citata Storybook Children saranno reinterpretate insieme ai Memphis Music Hall of Fame e a due voci femminili di straordinario valore: Shunta Mosby, come abbiamo visto una delle tre coriste, anche se definirle così suona riduttivo, visto l’immenso talento che hanno messo in mostra tra venerdì e sabato, e Wendy Moten, che non ha bisogno di presentazioni e della quale parlerò più avanti. Billy parla molto. Ama raccontare. E noi non ci stancheremmo mai di ascoltare. Ed è proprio grazie ai suoi racconti che le esecuzioni dei pezzi cantati a suo tempo con la Clay hanno assunto un carico emotivo altissimo. Vera ha raccontato che era la sua prima volta in Italia, e che quei due pezzi non li aveva mai più cantati in coppia dopo la dipartita di Judy. Ha raccontato che cosa volesse dire far parte di una coppia artistica interrazziale nell’America della segregazione. Un fattore, quest’ultimo, opportunamente ricordato e sottolineato anche da Graziano Uliani al momento della premiazione, quando cioè ha consegnato a Billy Vera il consueto riconoscimento che viene assegnato a personalità tanto importanti da aver dato un contributo alla diffusione della cultura musicale, in particolare della soul music, e alla storia del Porretta Soul Festival. Inutile dire che quei due brani sono stati l’apice emotivo della serata. Uno di quei momenti che sanno, appunto, di rito. Che ricordano che la vita è fatta di alti e bassi, di gioie e dolori. Ma anche, e soprattutto, di vuoti da colmare, di ricordi, dell’inesorabilità dell’incedere del tempo, di momenti di vita vissuta; impossibili da replicare, certo. Ma la musica, la grande musica, il rito collettivo del concerto, a maggior ragione se messo in scena in uno spazio intimo come l’arena Rufus Thomas di Porretta, consente di rievocare momenti e persone che non ci sono più, di riportare al cuore di chi partecipa al rito le sensazioni che hanno dato vita, nel tempo che fu, a dei piccoli incantesimi. Quegli incantesimi, in questa splendida serata, sono state quelle due canzoni. Ci sono stati altri momenti di grande e profonda intensità. A partire dall'esecuzione, sempre di Billy Vera, della slow ballad At This Moment. E poi, l'intera esibizione di Wendy Moten, volto del manifesto del festival e, in qualche modo, tanto iconica da riassumere in sé il significato della parola soul, nella sua declinazione made in Porretta. Un graditissimo ritorno, il suo. E stiamo parlando di un'artista che di ritorni se ne intende. Una carriera che, a dispetto della giovane età, ha attraversato quattro decenni, dagli esordi sulla scia di Whitney Houston fino alla partecipazione, relativamente recente, a The Voice di Nashville. Proprio di ritorni e della necessità di non mollare mai, ne ha cantato nel suo brano Don't Give Up. La sua performance ha incluso pezzi di Aretha Franklin (Ain't No Way), Stevie Wonder (As), alcune sue composizioni originali e il gran finale con Think, insieme a Gerald Richardson e col supporto delle voci meravigliose della sezione cori. La sua presenza sul palco è un invito nel segno dell'accoglienza. Un invito, ancora, ad esser parte di quel grande rito collettivo che è Porretta Soul. Un invito al quale il pubblico non manca mai di rispondere presente.