di Luigi Scardigli

PISTOIA. La premessa di subdolo pacifismo ci aveva tratto in inganno; poi, però, il Giulio Cesare di Alex Rigola si è fortunatamente dimenticato dell’autoantefatto del Nobel obamiano e si è beatamente spianato per l’intera rappresentazione, raggiungendo picchi di capolavoro in più di una circostanza. Certo, l’opera originaria di William Shakesperare non ha bisogno di molto altro, per arrivare a dama e in tripudio, in ogni stagione e al cospetto di qualunque pubblico, ma la mano del regista spagnolo è parsa parecchio coraggiosa, audace, contaminante, a volte delirante, ma sempre calibrata, attenta, lucida. A iniziare dall’effetto introduttivo cinematografico, che ricorda la produzione del Teatro Stabile del Veneto; uno schermo che è anche un parallelepipedo e nel quale entrano ed escono vincitori e vinti.

Un mega contenitore coperto dalle ossa delle vittime di tutte le guerre che viene febbrilmente scoperto dall’intero cast per mostrare il corpo senza vita riverso sulla battigia della spiaggia di Bodrum, in Turchia (immagine che chiude il cerchio visivo delle premesse), penultimo, terzultimo, quartultimo disumano effetto collaterale dei conflitti, che, purtroppo, la scenografia mondiale ha sùbito provveduto ad aggiornare, con i cadaveri dei piccoli siriani bruciati dal gas, frontiera insuperabile di dolore che invece, vedrete, ne siamo tristemente certi, conoscerà altri e più feroci e agghiaccianti fermo immagine, a consolidare le funeree preveggenze shakespeariane datate da oltre quattro secoli e continuamente rinnovate, contestualizzate, attualizzate. Come i microfoni sul palco, le immagini tridimensionali, la falsa simmetria scenica, le divise con bretelle che a noi hanno ricordato, contemporaneamente e confusamente, tanto Emma Dante, quanto Antonio Latella e anche Pippo Delbono. Ma al di là dell’eternità dell’opera dell’immenso drammaturgo inglese, di questo Giulio Cesare crediamo sia doveroso aggiungere anche qualche altro riconoscimento artistico, equamente distribuito tra il regista e la compagnia, con Maria Grazia Mandruzzato nel ruolo dell’imperatore romano, un duplice attestato storico, che sembra possa sanare tanto la ventilata omosessualità di Cesare, quanto la nuova ondata di quote rosa dell’universo dittatoriale; uno straordinario Michele Riondino (Marco Antonio), non certo più efficace di Bruto, Cassio e degli altri della congiura, rivoluzionari e controrivoluzionari, interventisti e neutralisti, buoni e cattivi, quelli che siedono sugli scranni del bene e quelli che si riposano su quelli del male, così come Max Glaenzel, scenografo, Nao Albet, che ha curato le musiche dab, da pogo rave e i costumi del Lupo Ezechiele nei Tre porcellini di Silvia Delagneau e senza dimenticare di citare, uno per uno, quelli che hanno animato questo spettacolo imponente, importante, educativo, scolasticamente imprescindibile, tanto da un punto di vista di approccio all’arte, quanto per essere annoverato tra le lezioni per gli addetti ai lavori: Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Silvia Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtero, Andrea Fagarazzi e Beatrice Fedi, la piccola, ma aggressiva profeta in patria, che al termine della tre giorni con la quale si è chiusa la stagione del Teatro Manzoni di Pistoia è stata dolcemente abbracciata e presa in collo da un Bruto ancora insanguinato, per un tributo casalingo tutto meritatissimo. Insomma, senza i primi due minuti di immagini, con Obama esterrefatto mentre le sue truppe stanno giustiziando Bin Laden, azione questa che sembra gli sia paradossalmente valsa il Nobel della Pace, questo Giulio Cesare appartiene alla rosa dei capolavori portati in scena sul palco del teatro pistoiese. La nostra piccola obiezione storica non è certo figlia di filostatunensismo; anzi. Siamo profondamente convinti, come sostenne e scrisse Mao Tze Tung, che la Rivoluzione non è un pranzo di gala, ma un’azione di violenza.

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