di Luigi Scardigli

PRATO. Sadico e claustrofobico. Come le nostre esistenze, del resto, soprattutto quando proviamo, anche solo per gioco, anzi, peggio, a interrogarci sul tempo che abbiamo trascorso insieme alla nostra metà, spesso individuata per convenienza, e decidiamo di vuotare tutti i sacchi, casomai approfittando della visita, notturna, indelicata, ma non inaspettata, di una giovane coppia conosciuta la sera stessa. Sul tavolo del salotto di Martha e George (Milvia Marigliano e Arturo Cirillo, che firma anche la regia) ci sono un’infinità di bottiglie e calici, che si riempiono e si svuotano a velocità supersonica; alle due di notte, arrivano i giovani sposini, Nick e Honey (Davide Enea Casarin e Valentina Picello), che nonostante sembrino essere ancora nella fase onirica e illusoria, si adegueranno presto, calandosi perfettamente nel ruolo della vittima/carnefice, al silente gioco del vicendevole massacro prestabilito.

La volontà di Edward Albee, l’autore di Chi ha paura di Virginia Woolf?, tradotto, nella circostanza per la produzione Tieffe Teatro Milano da Ettore Capriolo, in scena al Metastasio di Prato, sembra essere pienamente rispettata, così come le inevitabili ombre-proiezioni cinematografiche degli indimenticabili Richard Burton e Elizabeth Taylor e quelle meno lontane e più culturalmente attinenti di Gabriele Lavia e Mariangela Melato. Un ordigno preparato meticolosamente, con ogni cura, che sembra essere sul punto di esplodere da un momento all’altro: il pathos degenerante sale alla velocità dei bicchieri svuotati di whisky, gin e drink; le allusioni e le offese, di bassa lega e peggior lignaggio, serrano i tempi; ognuno vorrebbe mettersi al riparo dalle inevitabili fucilate che si sparano a campo aperto, ma poi, tutti, scoprono inevitabilmente le debolezze del partner e le proprie, in una sorta di lesionista reciproca confessione; anche i tentativi, assai goffi, di cercare di ricucire le onte aperte un attimo prima, naufragano impietosamente; Martha è ormai non più giovanissima ed è tardi per ricominciare daccapo e con un altro uomo; Honey invece, non suscita passione, desiderio, sangue; è esilissima, malaticcia e in preda psicopatica ai desideri repressi di diventare madre; George, che spesso sembra davvero Epifanio Giraldi, l’uomo d’acqua dolce di Antonio Albanese, esalta il proprio fallimento e Nick ammette, nonostante tutti i buoni propositi e presupposti, morali e fisici, di dover parecchia gratitudine per quel posto universitario all’incerta provenienza della ricchezza del suocero. La miccia però, nonostante la meravigliosa interpretazione di Valentina Picello, una Pippi calzelunghe ronconiana doc, che fuma crac e alla quale, spesso, applicano il Tso, sul più bello si è bagnata e nel momento nel quale la rappresentazione dovrebbe spiccare il volo, l’aereo resta sulla pista di decollo, la bomba non esplode, la strage non si consuma. Insomma, questo dramma collettivo, epocale, che invece di stemperarsi, con il trascorrere delle generazioni tende ad acuirsi e a tenere in ostaggio artefici e comparse, resta un problema sociale, che non si trasforma in denuncia teatrale, nonostante la commistione tra attori e spettatori, lasciando comunque quel sapore di soddisfazione per aver pagato la compagnia serale di quattro attori che hanno ricordato a loro stessi, ma anche a noi spettatori, che di Virginia Woolf, o meglio, del lupo cattivo, dobbiamo tutti avere una gran paura.

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