di Luigi Scardigli
CASTIGLIONCELLO (LI). Inequilibrio non è come inesperto, inadatto, incapace. La in prefisso, in questo caso, non è privativa, ma semplicemente scorretta e sarà proprio perché rappresenta un’eccezione alla regola dei linguaggi comuni, accettati, contemplati da slang, prima che da dizionari, che quelli di Armunia, da diciannove anni, continuano a riproporre – siamo alla xx edizione – Inequilibrio. Gli incontri sono numerosi, al Castello Pasquino di Castiglioncello, anche se rispetto agli esordi, il Comune di Rosignano Marittimo è ormai rimasto solo a credere in questa forma espressiva di arte contemporanea; gli altri, della zona balneare livornese, hanno dato forfait, preferendo restare in equilibrio, anziché inequilibrio. Ne abbiamo visti solo due: Geografie dell’istante, di Manfredi Perego, con Chiara Montalbani e Gioia Maria Morisco e Il cantico dei cantici, di e con Roberto Latini, spettacolo questo che ha sostituito, all’ultim’ora, per maltempo, Noosfera Lucignolo, sempre del vulcanico attore romano.
E di questi proveremo a parlarvi, anche se siamo perfettamente consapevoli che ci sia così poco da raccontare: le emozioni, seppur universali, incontrano spesso insormontabili ostacoli traduttivi, in qualsiasi idioma lo si voglia fare. Anche sfogliando il libercolo della manifestazione ci accorgiamo, durante la metabolizzazione delle impressioni ricevute, come sia letteralmente impossibile ordinare e riordinare i movimenti, scandirli, scansionarli, enuclearli, classificarli, catalogarli. L’unica cosa certa, e trascrivibile senza remore di contraddittorio, è che Chiara Montalbani e Gioia Maria Morisco sono due anime purgatoriali, con un piede sulla scala mobile che porta al paradiso e con l’altro attratto dall’inferno. Sono perfettamente sintoniche, ma non si cercano mai, durante l’esibizione: per loro, a dare gli ordini che non osano sindacare, sono i battiti del tempo, quelli che procurano loro reazioni psicotiche, scariche adrenaliniche, piccoli segmenti da elettroshock. La base musicale, techno, non fa che appesantire le impressioni, ma sembrano liberarle dal tempo trascorso, in cerca di un altro, nuovo, migliore. Che è quello contemporaneo, ma che sembra invecchiare precocemente e per questo, entrambe, si dannano anima e corpo per ritrovarne altri, di equilibri, quasi mai sintattici, un flusso continuo di memoria rivisitata, uno sguardo al passato e un rivivere il futuro. Dallo Spazio Cara, un container di tela sul quale, durante l’esibizione, s’abbatte il finimondo atmosferico, ci trasferiamo all’interno del Castello Pasquini, al primo piano. Nella stanza, dove troveranno posto solo 25 spettatori, Roberto Latini aspetta sdraiato su una panchina-culla: è un dj, imbolsito di acido lisergico, probabilmente, o altri ritrovati chimici e sta aspettando che dalla regia gli diano il via per iniziare la diretta. La sala è finalmente piena, si può iniziare e quando, deambulando con fatica e con le punte dei piedi rivolte all’interno (così camminano i dark, per forza), arriva alla consolle, dove ai lati ci sono una boccetta tappata da un pupazzo, sulla destra e un visomanichino con parrucca, sulla sinistra, la musica, di Gianluca Misiti, si fa assordante, è solo solo quando si posiziona correttamente le cuffie sulle orecchie; quando sono appoggiate, in attesa di scratch che non arriveranno mai, il frastuono melodico è solo un sottofondo lontano. Cosa c’entra con il Cantico dei Cantici? Probabilmente nulla, se si viviseziona il testo e gli si offrono precedenze religiose e ragioni filosofiche; tutto, se ci si lascia guidare dal suono delle parole, dalla profonda, abissale ricerca della bellezza, della maestà, dell’armonia e dall’inguaribile compiacersi del protagonista, vittima e carnefice della propria bravura. Certo, non siamo all’interno di un plasma immunizzato, ma in un garage di una metropoli, dove sopra consuma passioni violente, delitti, soprusi, incomprensioni, paure e desideri, anzi, un solo desiderio: che nessuno, per favore, svegli l’amore che dorme.