di Luigi Scardigli
FIRENZE. Siamo onesti: a Geppetto, in modo così ostinato e centrale, non ci aveva mai pensato nessuno, nemmeno Carlo Lorenzini, soprattutto perché la figura di Pinocchio è già, di per se’, abbastanza ingombrante. Ma che Geppetto poi potesse essere uno dei due genitori e che l’altro potesse essere, anche lui, un Geppetto, occorreva vivere, in prima persona, la problematica della famiglia dalla prospettiva gay. Altrimenti, si sarebbe continuato a dimenarci sulle fallacità del naso che si allunga, sulla meraviglia della procreazione e si sarebbe infittito il mistero dell’ambiguo e peccaminoso ruolo della Fatina. Tindaro Granata, invece, ha voluto approfittare di una delle favole più famose per ragazzi e poggiare l’attenzione intorno al papà, anzi, ai papà, perché Pinocchio/Matteo, di papà, non ha solo il leggendario falegname/veterinario/Luca, ma anche l’altro, Tony. Ironia della sorte, poi, ha anche voluto che la coppia omosessuale fosse del Sud, del profondo Sud e che dovesse faticare parecchio, per riuscire ad affrancarsi da tutti gli stereotipi per far sì che il loro amore e i loro diritti genitoriali venissero accettati.
Uno spettacolo importante, Geppetto e Geppetto (al Teatro di Rifredi, stasera, 4 novembre, ultima replica), soprattutto per tutta la carica politica e il pathos umano che contiene, con la leggerezza e l’equilibrio di un giudice superpartes, che non si è fatto corrompere da alcuno dei numerosi partigiani disposti lungo le due trincee, lì, con le baionette e le sentenze a emettere verdetti. Uno spettacolo sull’amore e su tutte le sue difficoltà, connaturate, biochimiche, con le quali deve confrontarsi quotidianamente per restare in piedi. Una coppia gay che decide di affittare un utero di una sconosciuta dentro il quale germogliare il loro figlio; figlio di una coppia qualsiasi, di una coppia borderline, di una coppia prototipo, di una coppia che nessuno potrà e vorrà mai conoscere e riconoscere? La straordinaria correttezza politica dello spettacolo di Tindaro Granata, coprodotto dal Teatro Stabile di Genova, dal Festival delle Colline torinesi e da Proxima Res e animato dallo stesso regista (Luca), Toni (Paolo Li Volsi), Franca (Alessia Bellotto), Matteo (Angelo Di Genio), dalla Madre (Roberta Rosignoli), Lucia (Lucia Rea) e Walter (Carlo Guasconi) sta tutta, dall’inizio alla fine, nell’offrire allo spettatore solo e soltanto le passioni ansiogene e le meravigliose paure della coppia e del mondo che gravita attorno a questa, prima, durante e dopo la difficile, sofferta decisione di allevare un figlio, frutto del liquido spermatico di uno dei due e di una cellula disposta ad accudire il nascituro a migliaia e migliaia di chilometri e al costo di migliaia e migliaia di euro. Ma Pinocchio – ed è questa la domanda alla quale dovremmo riuscire a rispondere per intavolare un dibattito -, è felice? Siamo sicuri che Pinocchio abbia bisogno di un papà e di una mamma normali per crescere nel migliore dei modi? I punti interrogativi che lo spettacolo offre non sono subdoli, retorici; non porgono su un vassoio irrinunciabile l’inevitabile risposta. Qualche perplessità, invece, sorge dopo il convincente brillante avvio dello spettacolo; dopo il serrato dialogo tra i due genitori, venato da comprensibili paure, inaspettate vene umoristiche e l’insindacabile padronanza attoriale, il resto dello scheletro della rappresentazione, talvolta, claudica, rischiando di somigliare a una soap televisiva, un piccolo dettaglio che non può e soprattutto non vuole sottrarre, un solo atomo, all’indispensabile coraggio di Geppetto e Geppetto.