PRATO. Il palmares parla da solo; quelli dell’Ubu si sono genuflessi e dopo averli ringraziati, li hanno omaggiati di premi. E non siamo andati a vederli, oggi, al Fabbricone di Prato, nell’ultima replica del cartellone, con la volontà di allinearci agli applausi tributati loro dai colleghi in precedenza, né con quella opposta di darci il tono della voce, quella che esce fuori dal coro e si pavoneggia per l’unicità del controcanto. È solo che oggi pomeriggio, a Prato, con Amore, non abbiamo preso la scossa, tutto qui. Senza voler sottrarre nulla all’originalità dell’idea e alle sue scientifiche banalizzazioni: il colloquio surreale su due lapidi attigue, popolato a talamo da due coppie di anonimissimi vecchietti: un marito e una moglie e due vigili del fuoco (Francesco Sframeli e Spiro Scimone, che firma anche la regia e Francesco Casale e Giulia Weber), un comandante e un pompiere semplice, legati, questi ultimi, da un amore omosessuale clandestino consumato in fretta e furia, di soppiatto, dietro la betoniera e mai dichiarato, soprattutto in Caserma.
Sono già morti e resuscitati alla bisogna per raccontare agli altri, non tanto agli spettatori, ma al mondo intero, cosa sia meglio fare, in vita, che non? È il loro ultimo giorno e si apprestano a confidare reciprocamente le loro confessioni? Il minimalismo scenografico è tanto funzionale, quanto pertinente, come le croci sugli angoli superiori delle tombe, che fungono da abat-jour ai rispettivi letti matrimoniali. Anche le conversazioni, ripetute a esaurimento beckettiano, sono e vogliono essere l’esasperazione finale e compulsiva di cose non dette, parole non pronunciate, desideri lasciati nel cassetto, con l’aggravante di averle pensate e agognate, ma sempre e puntualmente represse, senza la possibilità di riesumarle, perché non ci sono più le condizioni, le forze, il coraggio e la voglia. La camionetta dei vigili del fuoco è, in realtà, un carrello di un qualsiasi supermercato, dotato di lampeggiante e sirena, che ne annunciano l’arrivo. In vita, i pompieri, sono (s)fortunatamente accorsi due volte: la prima per salvare i giovani coniugi dell’annegamento; la seconda, dalle fiamme. E in tutte e due le circostanze furono i sensi rapiti dall’eccitazione e dall’erotismo, soprattutto della moglie, che se fosse legata a un partner meno insicuro, sorriderebbe ancora, a far sì che l’acqua lasciata aperta del rubinetto inondasse la casa e che le fiamme la incenerissero. Mentre scriviamo, ripercorriamo, con dovizia di dettagli e spunti filodrammatici, il percorso della narrazione, ma anche ora, lontano dal pathos della commedia, continuiamo a non sentirci scossi. Lo diciamo sapendo di essere temuti da dio, perché anche oggi, al Fabbricone, così come è successo ovunque, facile immaginare, il pubblico ha tributato al quartetto una calorosa ovazione conclusiva, segno indelebile e inconfondibile che il messaggio, sull’incompiuta inesorabilità dei sentimenti e delle passioni, consacrate all’eternità dall’amore, sia stato perfettamente veicolato e teatralmente tradotto. Ci sorge il dubbio di non essere stati all’altezza; e non sarebbe la prima volta. E nemmen l’ultima, ci auguriamo.