PRATO. Non è facile separare il coinvolgimento emotivo dalla cruda recensione. La colpa, comunque, è solo sua, di Tindaro Granata, il vocalista del nuovo capitolo dei Malavoglia, quello che Verga non avrebbe mai pensato di dover scrivere. Perché anche ad Aci Trezza, uno dei figli di Padron ‘Ntoni o di Bastianazzo, scegliete voi, ce l’ha fatta a lasciare il paese dove si vive solo di pesca e andare a Roma, a fare l’attore. Contro tutto e contro tutti, contro la storia, la leggenda e i pregiudizi, contro la fortuna, i luoghi comuni, i nepotismi incancreniti, salendo sul primo treno appena giunto alla stazione. Le lacrime si sono già asciugate, tornando a casa e quella tenerissima rabbia che ci ha regalato il suo sorriso la mettiamo da parte, dimenticandola giusto il tempo di recensire Antropolaroid, ma conservandola gelosamente, per il suo e il nostro futuro, ma soprattutto per il suo e il nostro passato.
Tindaro Granata è un attore vero, che conosce tutti i dettagli del palcoscenico e del pubblico che resta incantato e attonito ad ascoltarlo: conosce perfettamente i tempi di esposizione, la luce, le ombre e le foto portate in dote al Magnolfi di Prato attraverso le quali ci ha raccontato la sua terra e la gente della sua terra, il pubblico le ha guardate con molta attenzione, senza comunque capire, nonostante ci fossero anche fotografi professionisti, in sala, che a scattarle, al di là di una mano tanto attenta, vibrante, convinta, lucida, storicamente grata e memore, sia stata solo una semplice reflex tascabile, una polaroid, dotata di autofocus, vero, ma utile e ideale solo in esemplari circostanze atmosferiche. Nella sala di una delle succursali del Met, invece, quella della Pietà, per più di un’ora il buio amplificato dall’incontenibile tenerezza goduta e sofferta dagli spettatori è comunque bastato, sorprendentemente, a rendere giustizia alla memoria fotografica di Tindaro Granata, che ha posto nell’acido della sua camera oscura tutte le istantanee scattate durante l’adolescenza e che ha deciso di sviluppare solo nel momento opportuno. In bianco e nero, certo, ma non sarebbe potuto essere altrimenti; perché i colori distraggono la resa e la concentrazione, diversificano i ricordi, infrangono il vero e perché i colori, a Tindari, non ci sono, o meglio, fin quando si resta lì, non si vedono. Bisogna partire e andare lontano per differenziarli tra loro, prima che per gustarne le sfumature, i cromatismi. Ora che ce l’ha fatta, Tindaro Granata, anche se al secondo viaggio e con il vestito dell'ultima volta da cameriere, quella del culmine della sofferenza e della resurrezione, è tutto molto chiaro, tutto così affascinante; per lui, ma anche per noi, che ci siamo fermati, e volentieri, a sentirlo vocalizzare mamma, papà, nonne, zie, sorelle, fratelli, cugini, figli di boss, arie, terre, sensazioni, riconoscendo ognuno dei suoi parenti e dei personaggi portai nello zaino dell'emigrante dai commoventi ordini impartiti e inascoltati e dalle dolce intransigenti nenie sussurrate e mai dimenticate. Anche per noi, certo, che da principio siamo stati convinti e inarrestabili supporters del suo coraggio e della sua caparbietà e che d’ora in poi saremo orgogliosi e intransigenti testimoni della sua sconfinata bravura.