PISTOIA. Un’opera concertistica apparentemente sprovvista di direttore d’orchestra - ma forte di un poderoso impianto scenografico, con schermi e video chirurgici e di un popolo in viaggio, di migranti - che riesce a restare in piedi per tutta la durata dell’esibizione senza cedere mai, di un solo atomo, alla fatica, a psicosi mnemoniche, a crisi di identità. Uno staff strumentale eccellente, con un battitore libero, Franco Branciaroli, nell’occasione eunuco, nell’abito di Medea, che ricalca, quasi ossessivamente, quello che nel 1996 il maestro Luca Ronconi disegnò sul foglio del palcoscenico con l'allora collaboratore Daniele Salvo, che oggi lo ripropone. Non sappiamo a quante riletture della controversa tragedia greca abbiamo già assistito e, abbiamo il sentore, non abbiamo la minima idea di quante ancora ce ne riproporranno. Forse, però, può bastare così. Lo diciamo dopo aver assistito alla prima al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, alle 21, e domani, domenica 4 febbraio, alle 16), un capolavoro polifonico, con un intreccio di umori e sensazioni e traiettorie meraviglioso, un impianto scenico roteante, con le vertigini per una scala dalle quale piovono, nel salone della villa regale di Corinto, attori e sgherri, argonauti e strilloni.
E Franco Branciaroli (accompagnato in scena, da Alfonso Veneroso, Antonio Zanoletti, Tommaso Cardarelli, Livio Remuzzi, Elena Polic Greco, Elisabetta Scarano, Serena Mattace Raso, Arianna di Stefano, Francesca Mària, Odette Piscitelli, Alessandra Salamida e Raffaele e Matteo Bisegna) con religioso rigore e venerata divinatoria assuefazione, del progetto disegnato da Luca Ronconi e lasciato, a disposizione dei posteri, sul tecnigrafi dei teatri, non ha voluto cambiare nemmeno un semitono, godendo nel vedere il pubblico, massicciamente rappresentato da studenti delle scuole medie secondarie, oltre ai soliti condannati dall’abbonamento, attonito e incredulo al cospetto del suo poliformismo, del suo talento e di tanta musicalità, governabilità, un meccanismo di rara precisione impreziosito dalla minuziosa e febbrile coralità femminile. Ma da Luca Ronconi in poi, dai carmelobenisti a seguire, tanto per intenderci, il Teatro, tutto, ha fatto un sacco di altre cose, molte delle quali oggettivamente mediocri, innescando, in questo caso e quasi automaticamente, quel senso di irrefrenabile nostalgia, ma anche con qualche meravigliosa e consistente eccezione, che ha aperto i palcoscenici e soprattutto le platee ad altri spettatori, annoiati dalla televisione, certo, ma non disposti ad aggiungere, anche per pigrizia, ulteriori spese a quella fissa del canone. Quel teatro di maniera, che ha rappresentato e rappresenterà, in eterno, la scuola di chiunque voglia confrontarsi con l’adrenalina e la fatica, spesso disumana e quasi sempre malripagata, del palcoscenico, inizia a inabissarsi, per riemergere solo e soltanto nei corsi di recitazione, dove si studia Luca Ronconi proprio per provare a fare qualcosa di completamente diverso. Proprio come ha fatto Franco Branciaroli quando si è prestato al grande schermo, dove è stato immortalato in una decina di pellicole, molte delle quali davvero scarsamente ronconinane, in verità, soprattutto per una buona percentuale, intorno al 50%, quando dietro la macchina da presa sedeva Tinto Brass, al quale si possono anche riconoscere alcune virtù, ci mancherebbe altro, ma soprattutto addebitare vizi, di un cinema così scadente da essere riservato solo e soltanto ai soldati al tempo della naia.