FIRENZE. Le letture collaterali che La meccanica dell’amore sfoggia con imponente disinvoltura, precedute e ribadite da altri spettacoli ai quali si può tranquillamente apparentare, sono molto importanti ai fini di un’analisi artistica complessiva. In primis, la solitudine, che perseguita inesorabilmente l’incedere del tempo e dell’età, seguita, come effetto collaterale, dall’indispensabilità di una qualsiasi compagnia e dalla spasmodica conservazione della memoria, degli oggetti, anche quelli non più utili ad alcuna causa, che a sua volta innesca un altro meccanismo, quello del riuso, del riciclaggio, fino ad arrivare all’atteggiamento che dovremmo quanto prima adottare tutti, se vogliamo salvarci: la decrescita. Ma Alessandro Riccio, che firma anche la regia e Gaia Nanni, i protagonisti di questa commedia che continua a registrare, ormai da cinque anni, gradimenti e pienoni, come sta succedendo al Teatro Reims di Firenze (si replica fino a domenica 18 marzo) arrivano diritti ai centri nervosi, e dunque a quelle delle sinapsi del divertimento, anche senza alcuna elucubrazione intellettuale, senza approfondimenti sovrastrutturali.
La maschera del burbero Orlando, che si impadronisce degli arti, delle corde vocali, dell’umore e del lento e claudicante incedere di Alessandro Riccio così come la supertecnologica Amapola, robot dalle sembianze umane, che resuscita e si reincarna nel camaleontismo vocale e nella ginnastica metallica di Gaia Nanni, sono, al di là di ogni ragionevole approfondimento culturale, elementi di puro professionismo recitativo, incontenibile divertimento, esemplare infuso teatrale. Senza dimenticare di citare la coloratissima cura scenografica, la stamberga dove Orando, l’indomito vecchietto, trascorre quel che gli resta da vivere in compagnia degli oggetti di tutta la sua vita dai quali non intende separarsi e nella quale, il tempo, non gli ha lasciato nulla che fosse umano, se non affidargli, onde evitare che la minaccia di un ricovero in un ospizio paventato dalle telefonate dell’assistente sociale diventi realtà, un robot/cameriera utile a dare ordine, decoro e vivibilità a quella soffitta dimenticata. Dialoghi surreali, incomprensibili e incompresi da entrambi gli interlocutori, che trovano comunque un punto di contatto, tenerezza e sublimazione che si materializza, pericolosamente, quando l’irascibile Orlando, un Braccio di ferro che ha da tempo smesso di mangiare spinaci, riesce empiricamente e senza alcuna strategia a disinnescare i centri elettrici della sua insolita colf, immediatamente disattivata dalla centrale dell’assistenza sociale, che ha solo bisogno di numeri e servizi, per espletare i compiti affidatagli, ma non certo di umanità. Il precedente cinematografico di Alberto Sordi (Io e Caterina, 1980) non è solo un dettaglio, ma un riferimento al quale il regista si è per sua ammissione ispirato. Un richiamo che impreziosisce ulteriormente l'articolata validità della commedia teatrale e che amplifica, a dismisura, gli applausi che tributiamo, da qui, dopo averglieli fatti al Reims ieri sera, a Gaia Nanni e Alessandro Riccio - una coppia scenica singolarmente autonoma e parecchio affiata, che subito dopo aver terminato le repliche di questa, si cimentrà, sempre nel medesimo teatro, in una nuova collaudata riproposta (H come amore) -, con i quali siamo legati soprattutto da profonda amicizia, nata non per caso, per contatti comuni, o gite fuori porta, né tanto meno per coincidenze, adolescenziali o scolastiche, ma piacevolmente coltivata e doverosamente raccolta proprio nei teatri, dove abbiamo avuto il piacere, in questi anni, da spettatori privilegiati, di poterne recensire i lavori, ridendo e riflettendo con la loro bravura.