FIRENZE. L’avevamo già visto, La merda, ma siamo tornati a vederlo (Teatro di Rifredi, stasera ultima replica, che chiude la stagione); e ne avevamo già scritto, ma recensiamo di nuovo. Ne vale la pena. Per noi, beninteso. Lei, Silvia Gallerano, la strepitosa e straordinaria mattatrice di un monologo scrittole addosso (sei anni fa) dal marito/regista, Cristian Ceresoli, non ne ha alcun bisogno delle nostre congratulazioni, né dei nostri incoraggiamenti. I coniugi, insieme, hanno vinto e stravinto tutto e ovunque e oltre alla doppia versione italo/inglese interpretata sempre da quella piccola incommensurabile macchina da guerra, lo spettacolo gode di una miriade di traduzioni in idiomi di cui non sappiamo nemmeno in quale paese si parlino. Ne scriviamo di nuovo perché oltre che addomesticare la nostra morbosa affezione di protagonismo recensorio, siamo convinti di aver colto un aspetto che ci era sfuggito, la volta precedente e che, dando un’occhiata alle dovute lodi sperticate scritte per loro dalla Spagna al Brasile, dalla Lituania alla Danimarca, sembra non aver coinvolto nemmeno i colleghi decisamente più titolati (in virtù di cosa, poi) di noi, a glorificare e/o crocifiggere uno spettacolo.
Ci riferiamo alla modesta, comune, naturale, ma imprescindibile forza dell’amore, di quell’amore donato e di cui, inconsapevolmente, ne avvertiamo il peso e ne godiamo la protezione, con la sola naturalezza della disperazione, quella profusa dai genitori ai figli, quella offerta in dote, con il coraggio di farla finita oltrepassando la linea gialla e la dignità di continuare a preoccuparsi di sapere che mangi, quelle offerte dal papà e dalla mamma, quelle bussole orientate ventiquattrore su ventiquattro, perfettamente sincronizzate con i punti cardinali sulla strada maestra. Di Silvia Gallerano. Il nichilismo scenografico fa pendant biunivoco con la totale nudità della protagonista, piccola, con le cosce grosse, ma non abbastanza grassottella per entrare nei favori di un produttore di pubblicità televisive. È uno squarcio deontologicamente scomposto, cruento, violentissimo quello che il regista opera sul corpo della sua vittima sacrificale, la donna, offrendola medievalmente in dote al maschismo, al femminicidio, al ludibrio intimo e osceno di così fan tutte; uno squarcio che libera, oltre che le budella dell’agnello, pasto scontato della società, anche e soprattutto le sue forze, la sua dignità, la memoria di chi gli ha offerto la possibilità di coltivare i propri sogni. Sono la vis del padre, il suo laicismo impegnato, il suo patriottismo senza se e senza ma, fino alla fine, fino alla scelta, inspiegabile, della resa, dell’interruzione volontaria, cinematografica, plateale. Restano quelle poche parole, quei piccoli incommensurabili e invisibili luoghi comuni, che rimarranno, per sempre, compagni inseparabili della vita della prole, sit e slang che non abbandoneranno mai la figlia, anche prima e dopo l’aver sottoscritto patti inqualificabili con il diavolo, che è negli indumenti di ogni maschio, sì, anche di quelli spastici, e non disabili, dei quali si accentuano scorrettamente difetti e malformazioni, per esaltarne la stoltizia, per inabissarne il degrado. Rispetto ad altre esibizioni, stavolta, al posto di uno sgabello da apericena, Silvia Gallerano siede su un trespolo di più ampie dimensioni. Il risultato è lo stesso; la mano sinistra è impegnata a sorreggere il microfono, la destra, ad accompagnare le semirette della bocca, a dilatare tra loro i diti dei piedi, a proteggere, ma senza coprire, i seni con capezzoli ricchi di dignità e ai quali sembrano essersi sfamati una miriade di cuccioli, un abuso materno che non ha sgualcito i lineamenti, intaccato i profili, danneggiato la sensualità. Abbiamo deciso di parlarne di nuovo, de La merda, perché la volta scorsa ci siamo distratti nel concentrarci sugli elementi storici, filosofici, psicologici, quelli collaterali, in parole povere, perdendo così di vista incipit ed epilogo, inizio e fine, che sono testimoniati dalla costante presenza paterna e dall’asfissiante, ma rassicurante, (pre)occupazione materna. Nel mezzo, scorre il fiume, quello maleodorante e vischioso dell’Ade, quel rovescio di Merda che inonda paesaggi e cuori, non solo quelli e coloro limitrofi alle rive. Cronista, meravigliosa, di questo irrefrenabile oblio, Silvia Gallerano, scimmietta addomesticata a fare versi strani, pappagallo coloratissimo impegnato in gorgheggi, adorabile intrattenitrice (di sinistra, come suo padre) che prova a giustificare e difendere la non scelta del mondo femminile in prossimità degli incroci, attrice lussuriosa che abbiamo applaudito anche sotto altre spoglie e che non esiteremmo un attimo a tornare a vedere all’opera. Anche domani. Anche vestita.