di Paolo Ferro
PRATO. Ma allora dove sta il teatro? È questa la domanda dello spettatore curioso, quando le luci del restaurato Teatro Borsi di Prato si sono spente, venerdì e sabato scorsi, dopo L’amara sorte del servo Gigi, lo spiazzante prologo dell’attore Claudio Morganti e rimane il suono sconnesso dei tacchi sulla scena. Prendiamo un famoso testo di un altrettanto famoso drammaturgo del ‘900: cambiamo ogni parola, ogni didascalia e vediamo se riusciamo, ciononostante, ad acchiappare dei momenti di teatro. Ci aveva avvertito: questo è un esperimento sulla drammaturgia, una messa in scena sulla maschera della vecchiaia. Bastano pochi passi al buio, invece, per capire che siamo fregati. Irrimediabilmente. L’attore è sparito. Al suo posto un vecchio, stanco, sfibrato. Egli non è l’immagine della vecchiaia, carica di esperienza, che ci apre gli occhi sul presente e ci aiuta a intuire il futuro.
Egli è semplicemente vecchio. Ascolta dei nastri che recano la sua voce di mille anni prima, di quando era, dice lui, un coglione e sa che non è cambiato di una virgola, ha accettato lo sfacelo. Di cosa vogliamo parlare, di Beckett? Cosa ci si aspetta quando si va a teatro? La tranquillità di ciò che si conosce, forse. Dei punti di riferimento? Non guardatelo allora. Qui, signori, il teatro si fa acchiappare, si siede in cerchio insieme all’artista e allo spettatore e, come una biglia che sbatte su di un’altra, ne cambia la rotazione, il percorso; di un nulla, vero, ma la indirizza altrove. L’esperimento è riuscito, certo, ma non basta. Tutti noi siamo scossi dalla nostra immagine, che abbiamo visto riflessa nel futuro e vorremmo sfuggirvi, ma ormai è tardi. Siamo in un ritardo incommensurabile.