PRATO. Non è il teatro che desideriamo vedere: aulico, sontuoso, inappuntabile, perfetto; lo diciamo subito, perché abbiamo il terrore che, parlando poi, indispensabilmente, della bravura, ricchezza e magniloquenza de I miserabili, ci se ne scordi. Ma davanti a Franco Branciaroli, il Diabolik transalpino, il Marlon Brando della Madonnina, l’eroticissimo dotto di Tinto Brass, togliamoci il cappello e alziamoci dalla poltrona: straordinario, seppur professionalmente distante. Così come lascia ben sperare il nugolo di giovani e giovanissimi che calca la scena al suo fianco al Metastasio di Prato (si replica stasera, sabato 17 novembre, alle 19,30 e domani pomeriggio) in questa riproposizione del capolavoro di Victor Hugo (che assolse la Chiesa dalle tragiche e cruente responsabilità autoritarie), che più che entrare nella memoria della letteratura, acquista, con tragica lungimiranza, l’equilibrio dell’attualità, catapultando i suoi miserabili due secoli avanti.

Gli ultimi di ora non hanno certo la fisionomia di Jean Valjean, ma sono molti più di allora, ahinoi, con caratteristiche simili a quelle dei numerosi personaggi che popolano i cinque volumi dell’opera originaria e che Franco Però, il regista, riassume e concentra in circa tre ore di rappresentazione, concedendo a ogni spettatore di cavalcare, ben sellato, il proprio purosangue e seguire da vicino le vicissitudini della Francia dalla Restaurazione alla tragica rivolta antimonarchica del 1832, finita, irrimediabilmente, nel sangue. Alessandro Albertin, Silvia Altrui, Filippo Borghi, Romina Colbasso, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Andrea Germani, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Jacopo Morra, Maria Grazia Plos e Valentina Violo sono lo stuolo dei comprimari che popolano i vari passaggi dello spettacolo, dove Domenico Franchi, lo scenografo, riesce con parenti semoventi a creare eloquenti atmosfere. La lettura è corretta, scandisce tempi e ritmi con professionalità; l’interpretazione, dal boss Branciaroli al più piccolo della compagnia, maiuscola. Lo diciamo perché da quando si sono spenti, ma solo perché messi silenziosi, i vari telefonini, a quando si sono all’unisono riaccesi (questa la forbice temporale che segna la durata degli spettacoli a teatro), il pubblico è restato saldamente allacciato alle cinture della storia del brigante buono. Al quale, tutto sommato, il destino, dopo averlo ingiustamente e paradossalmente rinchiuso per lunghissimi venti anni nelle patrie galere/latrine, gli ha consentito di errabondare in giro per la Francia sotto altre nessuno e centomila spoglie/generalità, quelle con le quali, il popolo e il pubblico, non ha potuto che amarlo. De I Miserabili non aggiungiamo altro: chi ci legge, li conosce e chi non li conosce, farà bene a colmare questa pesante lacuna. Scivoliamo verso la fine della recensione sottolineando, con lucida ripetitività, la padronanza scenica di Franco Branciaroli, con quel suo uso smodato di un diaframma che sarebbe potuto appartenere a un incantevole tenore come a un anonimo alcolista, per non parlare di quel corpo, minuto, che riesce a ingombrare, con naturale invadenza, ogni angolo del palco. E salutiamo poi, con ammirazione, le performance di tutti gli attori del cast, ai quali raccomandiamo, seppur nessuno di loro ne abbia sicuramente bisogno, di continuare a osservare, studiare e surgere ogni movenza dell’anziano capoclan, fino a quando il dado, tratto, darà loro la consapevolezza di poter iniziare a fare altro, quel teatro che la generazione di mezzo ha bisogno di vedere per continuare ad appassionarsi.

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