FIRENZE. Come potrebbe immunizzarsi, Alan Ford, dalla corruzione, dalla cupidigia, da qualsiasi forma di immoralità, dai deliri di onnipotenza, dall’arsura di denaro, potere, successo, fama, sesso incestuoso, dal brutto che tende a impossessarsi delle sue volontà? Dovrebbe decidersi di diventare come Vindice e spendere l’esistenza intera a ordire vendetta trasformandosi in uno spietato e sadico serial killer, o potrebbe optare per una rieducazione dei sensi alla bellezza, per esempio andando a teatro. Se il bello del gruppo TNT dovesse accettare il consiglio e coinvolgervi, a proposito di rieducazione all’armonia con una massiccia dose di provocazione, non perdetevi, lui e loro (stasera e domani pomeriggio, 16 dicembre, alla Pergola, a Firenze), La tragedia del vendicatore, di Thomas Middleton, nella versione di Stefano Massini, con la regia e la drammaturgia di Declan Donnellan. Che è una cascata trash e pulp delle migliori memorie e occasioni cinematografiche, dove non si risparmia un atomo di spregiudicatezza, sadismo, cinismo, sangue, infamia, violenza esasperata, trivialità allo stato puro;

un musical abortito, una rappresentazione a orologeria, una carica esplosiva fatta brillare dove non serve, un baccano meraviglioso con un’orchestra letteralmente ubriaca; Carmelo Bene e Luca Ronconi (che lo portò in scena con una femmina di nome Mariangela Melato) straziati da una mai vista crisi di identità che non vedevano l’ora, in cuor loro, da molto tempo, di subire. Sì, perché ne La tragedia del vendicatore, dramma shakespeariano riambientato in chissà quale corte italiana dal sapore messicano di mariachi storditi da un caldo umido fuso con rum e vodka a profusione e realizzato con la precisione e la meticolosità che si conviene ai più asettici elvetici, funziona tutto, esplosivamente, alla perfezione. A partire dalla sontuosa regia, per nulla nuova a queste decontestualizzazioni universali, che confida in una scenografia (Nick Ormerod) impeccabile, sulle note (Gianluca Misiti) ondeggianti tra l’aulico e la disco, in saloni da the, trasformati in tribunali caserecci, alcove lussuriose, cruenti mattatoi, sotto lo sguardo muto del Mantegna e di Tiziano e un clero complice dei più truci misfatti e con uno stuolo di attori pasoliniani e felliniani (Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Martin Ilunga Chishimba, Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Errico Liguori, Marta Malvestiti, David Meden, Massimiliano Speziani e Beatrice Vecchione), tra i quali spiccano Fausto Cabra (Vindice, Piato, ma anche Joker, siamo onesti) e Pia Lanciotti (la Duchessa e Graziana, due ruoli materni profondamente ambigui e disdicevoli) i due carnefici e vittime di una mattanza che alla fine, come ne Le iene di Quantin Tarantino, non risparmierà nessuno. Una rappresentazioni amletica alla nitroglicerina, che esalta l’eternità del testo originario seicentesco e rende omaggio, con decorazioni e lustrini militari, alle guerreggianti rappresentazioni di Donnellan, in nome della sublime spregiudicatezza con la quale splatterizza e si prende gioco della morale e dei suoi alfieri, coinvolgendo il pubblico che non potrà non lasciarsi invischiare, per foga, passione, desiderio e giustizia, tra le membra del dramma, che finirà per indurre lo spettatore a schierarsi con i vinti e vergognarsi di aver desiderato, spesso, nella vita, un’esistenza di eccessi, cara ai vincitori. Un quadro che batte ormai il quinto secolo di vita, ma che sembra essere stato scritto l’altro ieri, all’indomani di una giornata campale nella quale il popolino, stremato dalla povertà, viene a sapere, dai giornali e dalle televisioni, che seguono in diretta ogni accadimento, in nome del morbo, non certo della verità, dell’ennesimo scandalo al Palazzo, affollato da nani e ballerine, zoccole e truffatori, aspettando in gloria, ma ormai stremato, che arrivi ancora un Masaniello a dare l’illusione che la giustizia, un giorno, possa trionfare.

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