PISTOIA. La longevità dei tormenti generazionali delle scritture di Anton Cechov sono stati sui palcoscenici di tutto il mondo e se dipendesse da Marco Sciaccaluga, regista di questa prima edizione de Il gabbiano ante censura zarista, tradotta da Danilo Macrì, prodotta dal Teatro Nazionale di Genova e in scena, oggi come ultima replica, 20 gennaio, alle 16, al Teatro Manzoni di Pistoia, ci resterebbero a lungo. La bravura, indiscriminata, trasversale, totale di tutti e undici i protagonisti addolcisce, da una parte, alzando il tono delle recriminazioni da un’altra, l’oggetto di questa riflessione. Solo uno stolto, ma incallito, eh, e per giunta presuntuoso (come lo sono gli idioti per antonomasia, del resto) stenterebbe a eleggere Cechov come uno dei momenti più importanti della drammaturgia mondiale di tutti i tempi, anche di quelli che verranno e che noi non potremo conoscere, ma in questo momento di passaggio teatrale generazionale, i vecchi classici da una parte, i giovani rampanti dall’altra, c’è urgente bisogno di un collant che non disperda il passato, lo conservi e lo sappia riciclare.
La rappresentazione del Teatro Nazionale di Genova che ha prodotto questo ineccepibile Gabbiano, scandito dalla precisione dei tempi, dalle intersecazioni degli umori, dalla freschezza dei personaggi sul palco, la loro inguaribile passione, le loro detestabili presunzioni, vittime e carnefici, tutti, di loro stessi, ha perso un’altra grande occasione, perché una lettura così tassonomicamente asfissiante del testo ne allontana, dalla visione, quasi chimicamente, una nutrita fetta di spettatori, che sono quelli che andrebbero corteggiati con lusinghe decisamente meno arcaiche. Ci vengono in mente la dissacrante coscienza di Filippo Timi, le magnifiche trasposizioni di Antonio Latella, il verismo dialettale dell’allucinata Emma Dante, tre sontuose, ma blasfeme, forme di regia che renderebbero a un testo così immortale il rischio della mortalità e dunque, della commestibilità, cosa facilmente e meravigliosamente realizzabile con un cast tanto eccellente, composto da anziani, giovani e giovanissimi talenti di sicuro futuro, come quello che si è esibito al Manzoni. E invece. Detto questo, però, ci preme stringere le mani e abbracciare, uno ad uno, in ordine alfabetico, i magnifici undici sul palco (Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Elsa Bossi, Eva Cambiale, Andrea Nicolini, Elisabetta Pozzi, Stefano Santospago, Roberto Serpi, Francesco Sferrazza Papa, Kabir Tavani, Federico Vanni) che si sono rincorsi, presi, fatti male, perdonati, liberati, per poi potersi rincorrere nuovamente perché accecati dall’ego hanno sentito, ognuno, la necessità di uccidere e impagliare quel gabbiano che altrimenti avrebbe trascorso l’esistenza a sorvolare il pelo dell’acqua di quel meraviglioso e utopico lago della vita. Una straordinaria collettiva conversazione attorno alle pene, meschine, di questo salotto russo nel quale convivono, contemporaneamente, come se ognuno di loro non avesse un passato e nemmeno un futuro, uno spaccato sociale che si è moltiplicato nelle generazioni successive, tanto che ancora oggi e poi domani, dopodomani e per sempre, troveremo, uno a uno, tutti i protagonisti del dramma di Cechov, nelle loro meravigliose, goffe e commoventi esternazioni, a chiedere alla vita e ai suoi verdetti un briciolo di coraggio, un atomo di fortuna, una fetta di tranquillità, una maggiore agiatezza, un po’ d’amore e un minimo di pietà. Che sono poi le cose che ogni Gabbiano, che sorvola qualsiasi specchio d'acqua, chiede ai suoi infelici osservatori.