PRATO. Informazioni a raffica, sparate forse con eccessiva lentezza, con una mitraglietta dagli effetti speciali considerevoli, senza tappo rosso, dunque pericolosa, ma caricata a salve e a parte lo spavento, nessuno, alla fine, resterà ferito a morte. Idea scoppiettante questa Queen Lear, parodia shakespeariana, come il drammaturgo avrebbe gradito, portata in scena al Fabbricone di Prato (anche stasera, alle 19,30 e domani pomeriggio, 27 gennaio), che ha coprodotto (il Metastasio, naturalmente) lo spettacolo con Aparte Soc. Coop e Teatro Carcano. In scena le ideatrici/interpreti/audaci Nina’s Drag Queens (Alessia Calciolari, Gianluca Di Lauro, Sax Nicosia, Lorenzo Piccolo e Ulisse Romanò), vallette mute, l’estate scorsa, alla presentazione ufficiale della stagione del Metastasio, che si sono prese ogni licenza possibile e immaginabile. L’autore, William Shakespeare, tratto alla bisogna da Claire Dowie, non avrà probabilmente nulla da dire di questa sfiziosa rilettura;
qualcosina il pubblico, forse, anche se, ieri sera, al termine della rappresentazione e del dibattito moderato dal collega Attilio Scarpellini che ne è seguito, la direzione del Teatro ha voluto deliziare i presenti con un Dj Set, ravvivato, anche se non ce n’era alcun bisogno, da alcuni iscritti al Laboratorio intensivo di teatro en travesti, allungando la sera delle stravaganze fino alla notte dei giudizi. La storia delle tre figlie di Re Lear chiamate, dal padre, a dichiarare e declamare il loro amore nei suoi confronti rinasce allegoricamente sulla scena con Regana, Conerilla e Cordelia, che devono a loro volta far sapere alla madre, la vecchia e ormai malata Lea R, commerciante di bambole, la loro affezione, decantando le loro rispettive riconoscenze. Ad ascoltare e a non gradire l’insana decisione della vecchia Lea R. c’è anche Kent, che prima di abbandonare la vecchia amica alle tribolazioni della vecchiaia e della senilità, preferisce camuffarsi e acompagnarla, seppur in incognito, fino alle sue ultime ore, che trascorrerà in un ospizio tra i peggiori del Regno Unito (l’angolo più riuscito della trasposzione), accolta dal giovane Edmund, un extracomunitario che proprio ad accudire i vecchi abbandonati ha trovato lavoro e possibilità di riscatto. Rileggere tassonomicamente senza contaminarlo, il leggendario Re Lear, avrebbe così poco senso, se non affidandolo a quelli che con Shakespeare ci sono nati sulle scene; apprezziamo dunque la trasposizione, in tutta la sua audacia, del testo, così come i vocalizzi e le modulazioni di frequenza dei diaframmi dei protagonisti (ispirati da Demetrio Stratos?), ma non possiamo non appuntare i tempi e le modalità d’esecuzione, come gli intermezzi musicali (curati da Enrico Melozzi), che sono eccessivi, senza però dare al lavoro quello che probabilmente non avrebbero voluto diventasse: un musical. Simpatiche e per nulla blasfeme la sovrascritture di alcune parti di alcuni testi delle canzoni italiane, che si intrufolano con disinvoltura nel plot del dramma semiserio, aumentando così di ulteriori stagioni l’immarcescibilità del testo originario, che si presta, per chiunque abbia un rapporto sano e costruttivo con Shakespeare, a qualsiasi rimodulazione, compresa, naturalmente, quella operata dalle reginette del trash, con uno sguardo, compassionevole, keatoniano, sulla vecchiaia, l’emarginazione, la solitudine e la morte. Peccato che nessuno, nel concistoro dell’incubazione dello spettacolo, abbia suggerito loro di ridurre al minimo le sbavature autocelebrative e arrivare, con qualche fronzolo in meno, senza per questo assumere sembianze seriose, al cuore degli irrisolvibili disequilibri esistenziali, che affliggevano l’umanità nel XVI secolo esattamente come succede ora e, con molta probabilità, come non smetterà mai di accadere.