PRATO. La bellezza dei gesti, delle parole, delle emozioni, della fisicità come ariete dissacratore, uniti a scritti, datati, anche se privi della certezza del mittente, trasformano questi Sonetti shakespeariani (al Fabbricone di Prato, con repliche stasera, alle 19,30 e domani, 17 febbraio, alle 15,45) in un meraviglioso girone dantesco, dove la lussuria si impadronisce dell’amore e la morte si burla della vita. Ma si può trascendere l’autore, che non ne avrà a male, visto che lo sapeva in vita, di non avere tempo e tempi, e concentrarci sulla figura del regista/poeta/narratore/buffone, Valter Malosti, che è un uomo ferito a morte dal suo tempo e dall’inesorabile vortice cronologico con ancora il diritto/dovere di dare sfogo alle proprie passioni, al canto del suo cuore, alla vibrazione del proprio piacere, alla cura della sua agonia, trasversali, ridicole, goffe, omosessuali, a tratti incestuose, ma sinceramente sublimi, epiche, difficili da non ascoltare, arduo resisterne alla seduzione, impossibili da non annoverare tra quelle cose che il teatro non può prescindere.

Il canto disperato del cigno trasformato in oca di corte si avvale poi della deserta, ma impegnativa, scenografia musicale di Michela Lucenti, cantrice portoghese, alla quale abbiamo nuovamente urlato brava dopo averlo orgogliosamente fatto la scorsa settimana, quando ci siamo fortunatamente imbattuti nella sua danza, al Cantiere Florida, con i suoi agnelli cattivi. Anche in quella circostanza, con le sue forze psichedeliche, il suo erotismo dilagante, la sua mirabolante imperfezione psichiatrica, c’era Maurizio Camilli, che stavolta, anziché cercare di riempire il vuoto, deve affrontare e combattere, in una danza propiziatoria e oscena, la rivalità delle adulazioni, la lunghezza del pene, la profondità del cuore. Il quadro si completa con Elena Serra, che è William Shakespeare in veste di silente osservatore e Marcello Spinetta, il giovane Adone, con il quale il poeta rivale ingaggia una sensualissima battaglia. Senza tornare al drammaturgo inglese, scatenatore consapevole di quesiti che sono restati aperti a distanza di secoli e che tali resteranno nell’eternità, bisogna necessariamente aprire la parentesi su Valter Malosti e Fabrizio Sinisi, che sono gli adattatori teatrali di questa opera che si scollega dalla bibliografia shakespeariana come produzione ufficiale, tanto che si vocifera che non abbia avuto alcuna volontà a divulgarli. Perché qui ci imbattiamo in quel teatro fatto di teatro che diventa teatro per morire teatro, attorno al quale il teatro esalta se stesso e chi riesce a cavalcarlo, condurlo, trasformarlo: in teatro altro, che sono le traduzioni e le contestualizzazioni che non offendono mai lo slang e le emozioni originali, ma che sanno rinnovarlo e trasportarlo nel tempo, eternizzandolo. I contraddittori e per questo irriverenti suggerimenti sussurrati al giovane adorato sulla necessità dell’amore, della famiglia, del senso delle cose nel tempo affinché il tempo non bruci le cose e il loro senso, sono decantati al microfono, intervallati da ululati e applausi registrati come da migliore convention statunitense, con la maschera di un giullare equivoco, che si riprende l’anima del poeta inabissando se stesso e le sue lodi nel più profondo e torbido dolore, lasciando ai posteri il testimone della passione più sregolata che si deve arrendere ai dettami e ai canovacci della società, quella apparentemente sana, quella che garantisce il proliferare del genere e dei sentimenti più nobili, che è quella che consentirà alle più nobili divagazioni di restare teatro. E raccontarsi.

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