PRATO. Un comizio, sarebbe stato più semplice. È quello che hanno fatto tutti, del resto, immediatamente dopo e per molti anni a venire, fino a quando la storia si è fatta leggenda, già dalla mattina del 9 maggio, quando Aldo fu trovato Morto nel bagagliaio di quella Renault 4 rossa, rubata pochi mesi prima a Filippo, un operaio stradale emigrato a Roma da Macerata in cerca di fortuna. Daniele Timpano, però, nato a Roma appena 4 anni prima della prima mattanza che ha segnato questo paese (le altre due sono Falcone e Borsellino), attore, regista, della scuola storta del Teatro, tra Mister Bean e Daniele Luttazzi, all’epoca dei fatti, era troppo piccolo, per capire. Ma anche per prendere posizione. Però, con quel macigno sulle spalle, sulla memoria collettiva e sul futuro di ogni pensatore, ci è cresciuto, facendoci i conti e facendoci teatro. Il suo Aldo Morto infatti, in scena al Magnolfi di Prato (si replica stasera, alle 20,45) parecchi anni dopo un indiscusso riconoscimento di premi, critica e pubblico, è ancora un’ottima indispensabile relazione tra il cadavere dello statista democristiano e i suoi carnefici, annessi e connessi gli accurati depistaggi dei servizi segreti: americani, russi, israeliani e palestinesi;

senza dimenticare le inverosimili fandonie raccontate da tutti quelli convocati a relazionarne nei caroselli processuali giunti all’ennesima edizione con tanto di commissioni parlamentari d'inchiesta al seguito, o le lacrime di coccodrillo dei vecchi amici che ne sentenziarono la condanna a morte; non da meno la demenza giovanile, iniettata di adrenalina e prebende, spesso inconsapevole, altre volte ben retribuita, di quei poveri cialtroni criminali che furono incaricati, senza aver ancora detto da chi, di processarlo, proprio loro, che al massimo, al leader della Dc, con diplomi di ragioneria strappati alle serali, avrebbero potuto fare da inservienti. Aldo Morto, insomma, per non essere demagogici, occorreva prenderlo e trattarlo con le pinze della documentazione e della spensieratezza, costruendoci intorno uno spettacolo che su quel cadavere così importante e pesante ci si ripassasse sopra quanto sarebbe bastato per illuminare le strade adiacenti via Fani e tutti i personaggi che in un modo o in un altro gravitarono nei paraggi della salma dello statista pugliese. Quella Renault 4 rossa, che sul palco è una macchinina telecomandata, un cucciolo ammaestrato, come l’intera vicenda, del resto; la musica di quegli anni spensierati e forti, qualunquisti e rivoluzionari; le sagome dei carcerieri, incapaci di gestire un’azione più grande delle loro goffe velleità destabilizzanti e quelle dei colleghi di partito, stretti stretti insieme ai loro finti nemici a far fronte unitario al cospetto della sventurata ipotesi di un rilascio (stile Sossi); e questa sì, che sarebbe stata la mannaia sulla Massoneria. Le sopravvivenze degli uni e degli altri, la vita, la loro, che continua, i ricordi che si affievoliscono, le giustificazioni mute dei brigatisti, tra pentiti, dissociati e arresi e quelle dei giornalisti e degli scrittori, dei registi e degli attori, colleghi e complici di una verità lasciata marcire tra le varie udienze processuali, le inchieste parlamentari e i manoscritti di analfabeti di ritorno, ahinoi, persino pubblicati. Nessun dettaglio investigativo, da parte di Daniele Timpano, che resta fuori da buon spettatore cauto dal cuore della vicenda, troppo piccolo e troppo intelligente per lasciarsi invischiare in un affaire di complicanza internazionale, epocale. Come, ad esempio, dei 92 bossoli ritrovati sulla scena dell’eccidio (89 scaricati dagli aggressori, appena 3 dalle guardie del corpo trucidate), lasciato per ore in balìa di chiunque, tra addetti alla rappresentazione del morbo della disperazione, curiosi e agenti segreti; né dell’ipotesi, affatto peregrina, che quel 16 marzo 1978, Aldo Morto, in via Fani, non ci sia mai arrivato, perché già rapito, qualche ora prima, come radiofonicamente annunciato dall’emittente del Pci proprio un’ora scarsa prima dell’agguato; come nulla ha detto dei fantomatici controlli da parte delle forze dell’ordine in via Gradoli, una delle carceri di Aldo Morto, sulla Cassia, noto quartiere residenziale di pidduisti. Non ha capito tutto, il giovane Daniele e si è astenuto dall’emettere pareri; ma non capimmo nemmeno noi (lo slogan si muore d’eroina, si muore di lavoro, che cazzo ce ne frega se è morto Aldo Moro ne è la più triste e sintomatica dimostrazione), abbastanza grandi per cercare di non lasciarci strumentalizzare su che cosa si consumò in quei 54 giorni (il 55esimo non conta, è quello dell’esecuzione) di buio totale. Persino i vari premi consegnati al mattatore metropolitano, Ubu compreso, tutti meritati, badate bene, potrebbero avere il sapore sinistro, paradossale, perverso e deviato di uno spettacolo dentro lo spettacolo. Del resto è metateatro, che c’è di strano.

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