LIVORNO. Esiste, probabilmente, una consecutio nella Trilogia della Provincia (di Erchie), ma noi, non certo per controcorrentismo, l’abbiamo percorsa e chiusa al contrario, partendo dall’ultimo anello, La sorella di Gesucrsito, per poi consumare lo step di mezzo, Stasera sono in vena e assistere dunque al suo prologo ideale, Diario di Provincia. Il triangolo l’abbiamo chiuso ieri sera, a Livorno, in Collinaia, per l’esattezza, la campagna aulica che guarda la città portuale con la voglia di sentirsi parte integrante del mare, soprattutto da quando la furia delle acque piovane e dell’approssimazione architettonica l’ha sventrata, uccisa, crocifissa. Il cantore di questo crocevia della disperazione, del dolore e della vendetta, catapultabile dalla provincia brindisina fin sulle rive del Tirreno, è Oscar De Summa, uno dei nove artisti che stanno impreziosendo questa quarta edizione di Scenari di Quartiere, un’alchimia meravigliosa per riportare la chiesa al centro del paese. E per celebrare messa, al policromo, esuberante, estemporaneo Oscar De Summa, basta davvero poco, anzi, nulla: nemmeno l’altare, neanche l‘acquasantiera. Ma neanche un teatro.

Ci pensa lui a rapire l’attenzione dei fedeli, facendoli accomodare sulle panchine disposte lungo la via principale del paese e far vedere loro come lì, da sempre, non è mai successo nulla e nulla, con molta probabilità, sembra possa succedere. Un monologo minimalista - disciplina che incarna fino all’esasperazione -, grazie al suo camaleontismo recitativo, ginnico, sonoro. Sul palco, incastonato e rialzato tra la ferrovia, la stazione dei vigili urbani, un terratetto dai cui terrazzi piovono incantevoli omaggi floreali e un piccolo condominio laterale, dove da una finestra un attempato inquilino si dibatte tra le faccende familiari e la curiosità, Oscar De Summa fa da Cicerone in questo viaggio verso la sua terra, la nostra terra, poi, meravigliosa occasione sistematicamente ignorata, sciupata e consegnata così, nel tempo, ad avventori senza scrupoli, che se ne sono, in barba a nessuna regola, impadroniti, usandola, violentandola, seviziandola. Nel mezzo ci sono tutte le generazioni che hanno avuto la sfortuna di nascere da quelle parti, dove è ormai scritto che non si scriverà nulla, se non pagine di cronaca nera. E a nulla, è servito, provare a trasformarsi in un impavido punk: la Provincia ti schernisce, ti isola, salvo poi risucchiarti a patto di una tua indiscriminata omologazione. È quello che succede al protagonista, ai protagonisti di questa recita collettiva, a più voci e un unico destino, che crescono in quelle terre delimitate da benvenuti e arrivederci, dove il patriarcato genera soggezioni e mostri e le donne crescono consapevoli della loro subalternità. La storia delle storie la fanno i ragazzi, che poi diventano uomini, piccoli delinquenti alla ricerca di un’identità che verranno assoggettati prima dalla mamma di tutte le mamme, la Sacra corona unita, dispensatrice di sicurezza e stabilità, droga e centri di recupero, in un fazzoletto di terra dove Oscar De Summa prova, prima di fuggire, a segnare una linea di confine che nessuno, salvo la sorella di Gesucrsito, proverà e riuscirà a oltrepassare. Con la musica assordante e stordente di quei tempi e di quelle generazioni, che non è la colonna sonora dell’esperimento teatrale, ma uno dei protagonisti, comprimari alla pari di un nichilismo senza vie di fuga, senza possibilità di salvezza. Se non la sua, quella di Oscar De Summa, un po’ Epifanio e un po’ Alex Drastico, personaggi partoriti dal collega Antonio Albanese che ha però preferito non infierire, consegnando agli spettatori dipinti allegorici e simpatiche macchiette. Oscar De Summa, invece, spietato saltimbanco che racconta con pietà le viscere malate della propria terra, senza cavalcarle, preferisce affondare sadicamente il coltello nella piaga, resuscitando i cadaveri e i loro buoni propositi in tutta la loro nullità.

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