FIRENZE. Vero, Golaud (Michele Abbondanza) la salva da chissà quale atroce fine nella foresta, la giovanissima Melisande (Eleonora Ciocchini) e lei, per riconoscenza, lo sposa pure. Ma poi conosce Pelleas, il cognato (Cristian Cucco), conosce l’amore, l’attrazione, la passione, il desiderio: giovane, aitante, bello e non sa resistergli. L’incontro e l’accoppiamento sono inevitabili, fatali, come la gelosia del vecchio latifondista, che si lava solo con il sangue. La Compagnia Abbondanza/Bertoni (Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, che firmano regia e coreografia, libera ispirazione all’omonimo dramma di Maurice Maeterlink) chiude così il cerchio trillogico, Poiesis, iniziato due anni fa, con La morte e la fanciulla, l’apertura genitale con la precedenza dedicata all’universo femminile e proseguita con Erectus, l’esplorazione di quello maschile; lo fa con la congiunzione, astrale, ma inconciliabile, dei due pianeti, Pelleas e Melisande appunto, al Teatro Cantiere Florida, a Firenze, che proprio con questa prima assoluta decide di dare il via alle danze della stagione 2019-20, organizzata, per quel che riguarda lgli spettacoli di danza, da Versiliadanza. L’attenzione e l’eccitazione sono altissime; la stragrande maggioranza degli spettatori ha già assistito ai primi due prologhi del terzetto ed è sicura che anche l’epilogo non potrà che confermare tutto il bello e commovente già visto.
Tra la platea e il palcoscenico c’è una rete, una coltre che protegge l’una dall’altro, senza nascondere e su questo grande schermo trasparente passa l’inquietitudine: tre melegrane che perdono polpa e sangue, la piana scoscesa di un bosco incontaminato e l’acqua, sorgente di vita e d’amore, pace e erotismo. La danza è un crescendo di burattini senza fili, che si vedono, si annusano, si accostano, si accoppiano. La musica non abbandona un attimo la trama, che è la fiaba, decontestualizzata, del Principe Golaud, né l’ansia degli spettatori, in questo balletto cine/coreografico che accontenta cinefili e puristi, classici e dissacratori. Poco meno di un’ora di fisicità assoluta, sconfinata poesia, bravura cristallina. Golaud, sul dorso del proprio cavallo, fa da sentinella al proprio perimetro ideale, una zona recintata e ben delimitata nella quale è impossibile accedere. Ci si trova, per caso, Melisande, avvenente fanciulla che ha solo bisogno di essere salvata e poi accudita e dunque amata. Ma in quest’area anche il fratello Pelleas ha libero e fatale accesso. Sono Venere e Marte, sono Lei e Lui, sono la donna e l’uomo, la femmina e il maschio. La metà più nobile ha solo un aspetto, il suo; l’altro cinquanta per cento, invece, è come minimo doppio e si trasforma: non sa amare per amare, ma solo amare per possedere e non sa soprattutto arrendersi all’inesorabile incedere del tempo per far posto all’amore vero, quello che lui ha probabilmente saputo un tempo dare. Lo schermo che divide e impera propone altre figure allegoriche; per molte di queste, non riusciamo a capire, né a captare il nesso. Ci sono tre pesci agonizzanti in file parallele; poi, ne resta solo uno, nel mezzo. Gli altri due, probabilmente morti, sono sostituiti da piccoli arbusti in legno, che bruceranno senza diventar cenere bruciando una fotografia, che si decomporrà, facendo perdere memoria e tracce della sua esistenza. Uno spettacolo furioso, densissimo, curato da uno stuolo di comprimari nei minimi e più apparentemente superflui dettagli, farcito da una miriade di richiami storici, biblici, epici, agitato e portato in scena da tre danzattori e una sola articolatissima scuola.