FIRENZE. Senza leggere il foglio di sala; senza conoscere i rispettivi background di ognuno dei protagonisti in scena. E senza sapere da dove venga Serena Malacco, giunco elegante e delicatissimo, che si è transalpinizzata in tutto e per tutto e che ha scritto e portato in scena, al Cantiere Florida di Firenze, All around me, triplice partitura danzante che, ignavi di cosa volesse esprimere, si riassume in un Eden biblicamente scorretto, ma storicamente inappuntabile, dove le donne (Ana Luisa Novais e Alice Raffaelli) giocano e si desiderano e dove, un attimo dopo, stessa sorte ludica ed erotica, tocca anche agli uomini (Stefano Beltrame e Luis-Clément Da Costa). I contatti e gli appostamenti sono tanto carnali quanto ludici, peccaminosi e adolescenziali, infantili, che risentono e denunciano l’insopprimibile desiderio chimico/umano che avviluppa le sorti di ogni singolo essere vivente, appartenente a qualsiasi specie. Sulle note dei Pink Floyd, su quelle dei Television, interpretate dalle chitarre di Roberto Dellera e Milo Scaglioni, che appartengono al quadro bucolico paradisiaco contemporaneo che si offre agli spettatori, vestiti tra folk e punk, su uno sfondo floreale che ricorda i meandri uditivi e auricolari, ma anche quelli vaginali, da dove nasce il mondo e tutte le sue sfumature pulsanti, che muovono le cose.
Il buio che separa e divide i tre atti è forse la cosa meno avvolgente e meno facilmente comprensibile della rappresentazione, ma ostinatamente voluta dalla sua ideatrice, dunque, elemento al quale occorre offrire rispetto, soprattutto in considerazione del fatto che ogni atto rappresenta un’era geologica, che si può anche tranquillamente riassumere in un’ottica vertiginosa dell’inesorabile e supersonico trascorrere del tempo, in una triplice fase quotidiana; del risveglio, della coscienza e dell’abbandono, che è quello che ci succede puntualmente ogni giorno, nonostante molti di noi, puntualmente, non se ne sia capaci di calcolarne il dono e valutarne l’effetto. L’umanità che si risveglia nel secondo atto è quella appartenente a una comunità ben stabilita e definita, con uomini e donne di ogni età, che sembrano essere figlie, giovanissime, di un letargo ormai alle spalle, con la primavera che incalza e che induce i membri di questo micrcosmo a riprendersi i propri spazi: ludici, sociali, come le cantilene e le filastrocche, i giochi a campana e l’amicizia, compresa la frenesia quotidiana che ci spinge a camminare sempre più velocemente al di qua e al di là dello spaccato scenico che illumina e focalizza le nostre esistenze, in un cuneo anonimo, ma sempre individuabile, eternizzandole, ma anche costringendole e condannandole al martirio sacrificale. L’ultimo atto è quello che ci riporta alle origini: le coppie si sono ormai evolute (?), standardizzate, ma i lazzi che le spingono alla (ri)creatività sono esattamente gli stessi dell’esordio, fedele e testimoniale rappresentazione di come il desiderio e le pulsioni esulino, letteralmente, dalle sessualità scandite dalle convenzioni, più che dai legami. Una danza tribale pura, giocosa, carnale, che conferma il nonsense e il nontempo e che esalata tanto i furori chimici che sospingono, da sempre, l’umanità, quanto la grazia ginnica dei quattro protagonisti, figli di varie divinità minori, zingari e girovaghi di compagnie che fanno ovunque incetta di riconoscimenti, ma che discendono, tutte, da Pina Bausch, la grande eroina stupefacente del secondo millennio, quella che ha partorito una generazione meravigliosa di danzattori e danzattrici che non si sono potuti più difendere dietro la bellezza dei propri corpi, ma hanno dovuto lasciarsi esplorare per promuovere ed elevare la danza da arte estetica ad arte.