PRATO. La scommessa del Metastasio, iniziata la scorsa settimana con L’armata Brancaleone di Roberto Latini, prosegue, senza soluzione di continuità. Stavolta, l’ideale è lasciarsi trasportare dalle suggestioni; così si pensa alle interminabili mosse senesi del Palio, o anche ai documentari, della migliore tradizione televisiva, dove una telecamera nascosta spia, per giorno e notte, branchi di lupi, civette, serpenti velenosi, animali con cromatismi carioca, volatili possenti e tenebrosi, fiere fameliche, un regno dove l’uomo, se non di soppiatto, non può avere accesso, soprattutto perché non è affatto gradito. Tutte queste evocazioni – ma qualcuno può averne avute altre, eh, ci mancherebbe! - la suggeriscono Chiara Lucisano, Caterina Montanari, Daniele Palmeri e Michele Scappa, che sono i corpi, le voci, le anime e in particolare i suggestivi suoni gutturali sui quali Kinkaleri ha progettato e prodotto il suo OtellO (scritto così, poi ci spieghiamo), in prima nazionale (anche stasera, alle 19,30 e domani, 31 ottobre, alle 16,45) al Fabbricone di Prato. Che i quattro acrobatici danzattori stiano riesumando la tragedia di William Shakespeare non c’è dubbio; non c’è dubbio perché raccontano dei tormenti di Otello, dell’infidia di Iago, della scaltrezza di Cassio e del martirio di Desdemona, tutto però inscritto all’interno delle due O maiuscole, che segnano l’inizio e la fine di OtellO e che racchiudono tell, che in inglese vuol dire raccontare, informare, dire, riconoscere.

Allora, tutto quello che abbiamo pensato, perché suggeritoci dalle sensazioni emotive che rimbalzano a velocità supersonica sui nostri sensi, dobbiamo necessariamente resettarlo e riscriverlo seguendo i canoni e i dettami che impongono la lettura del foglio di sala, il vademecum per spettacoli borderline, che, a nostro presuntuoso avviso, conviene sempre ignorare di sana pianta, onde evitare di ingarbugliarsi dentro recinti e pantani dai quali se ne esce, quasi sempre, particolarmente edotti, certo, ma anche stanchi, molto stanchi. Ecco perché, quando i quattro assoldati alla causa shakespeariana hanno iniziato, ripassando a mente febbrilmente i rispettivi copioni, a scaldare i muscoli, le ugole e le loro reciproche inevitabili contaminazioni, noi, anziché dar retta a tutto quello che Massimo Conti, Marco Mazzoni e Gina Monaco vogliono raccontarci, abbiamo preferito allentare le attenzioni e seguirli attraverso il filtro dei nostri istinti, scelta opinabile, vero, ma che ci ha consentito di gustare, parecchio, le evoluzioni circolari e le commistioni fisiche dei quattro protagonisti, prima nudi, poi parzialmente vestiti e poi ancora nudi o quasi del tutto, che si sono adorabilmente e pudicamente intrecciati per l’intera rappresentazione, capaci di distrarre la nostra curiosità dalle vagine e dai seni (i peni ci interessano decisamente meno: è questione di chimica, la nostra) e accompagnandoci, sulle loro spalle, lungo la via di un viaggio che forse avremmo preferito eseguito a cappella, o in vocalese, come fa Bob Mc Ferrin, i Manhattan Transfer o anche le nostre Voci Atroci. E da una parte, siamo anche un po’ mortificati, pensando agli autori, di non essere stati debitamente coinvolti dai loro disegni e progetti, ma non avremmo potuto, nemmeno dopo averlo visto e rivisto più volte, lo spettacolo, entrare in quella sintonia culturale che, probabilmente, anzi, sicuramente, gli autori desiderano stabilire con gli spettatori. Ma a noi, è piaciuto così, senza titolo, senza voci, senza riferimenti, anche perché, specchiando le movenze ginniche dei protagonisti con il testo, abbiamo pensato che la rilettura sarebbe andata bene, anzi, benissimo, con qualsiasi altro documento storico, più o meno leggendario dell’Otello, pardon, dell’OtellO di William Shakespeare.

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