di Simona Priami

FIRENZE. Una scenografia spettrale, volutamente scabra ed estremamente essenziale, dove dominano il bianco, il nero e il grigio, accoglie il pubblico del Cantiere Florida, a Firenze. Ci sono una croce appesa in alto con una lampadina attaccata, una sedia, uno specchio, uno stipite di una porta, oggetti bianchi; lo sfondo e una pistola, invece, sono neri; una luce rappresenta il sole, forte, accecante, alienante. Su questo palcoscenico-cimitero si sviluppa Lo straniero – un funerale, di Francesca Garolla, il monologo di ottanta minuti di Woody Neri, regia di Renzo Martinelli (che si ritaglia una gemma nella rappresentazione), che partendo dal romanzo del famoso filosofo esistenzialista (anche se lo scrittore stesso ha sempre rifiutato questo appellativo) Albert Camus, affronta temi fondamentali quali la morte, l’assurdità e la causalità della condizione umana, la paura alla quale sfugge il controllo del corpo, la sofferenza, il dolore, l’esistenza e l’indifferenza di Dio, i diritti che non sono uguali per tutti. Con la pistola in mano, attraverso una recitazione coinvolgente sia dal punto di vista verbale che fisico, alterna riflessioni filosofiche, ciniche e razionali, flusso di coscienza e monologo interiore. Si pone, inoltre, domande provocatorie senza risposta per il pubblico dal quale cerca il consenso.

Si presenta come uno sconosciuto: voi non sapete chi sono e io non so chi siete voi. Emerge così la storia di Meursault, francese che vive ad Algeri, all’epoca sotto controllo francese, personaggio incapace di provare emozioni, indifferente alla morte della madre: fuma e beve caffè vicino alla bara. Totalmente estraneo all’amore, sentimento che non capisce perché incapace di provarlo, il titolo dell’opera è tutt’uno con il contenuto. Oggi la mia mamma è morta o forse ieri, non so, afferma il protagonista. Meursault si trova sulla spiaggia d’estate, caldo eccessivo, sole infuocato. In un momento di alienazione, fisica e psicologica, uccide un arabo, spara più colpi; processato e condannato a morte, non tenta di difendersi; l’inetto, l’antieroe novecentesco, non chiede né cerca il perdono di Dio. Woody Neri, accecato dalla luce, attraverso l’estrema flessibilità del tono di voce, inscenando un suicidio, mostrando la polvere, il cimitero, riesce a comunicare in modo non lineare, ma a sprazzi, a intermittenza- come i messaggi dal profondo -, la forza del capolavoro del romanziere francese. Soffriamo per qualcuno in cui possiamo riconoscerci, come Gesù bianco, maschio; il morto non ha nome, l’assassino sì, di solito è il contrario; gioca con le parole, anche attraverso un’amara ironia; descrive la morte nei minimi particolari, il funerale, il rito, l’indifferenza di Dio, l’assurdo. Un suono di sottofondo spettrale, inquietante, come un rintocco di morte, accompagna il coinvolgente monologo. Sono qui a raccontare una storia del novecento che, dice l’attore al pubblico, tratta di un uomo indifferente, forse un mostro, un pazzo, uno squilibrato che però mette in luce l’assurdità dell’esistenza, come se volesse avvicinare l’analisi di Meursault ai tempi di oggi; un testo attuale, vicino al mondo contemporaneo dove dominano la globalizzazione e l’automatizzazione, entità che vivono e sono regolate da leggi basate su un meccanismo universale, un sistema impietoso a noi sconosciuto, estraneo, alienante, straniero, lontano dalle nostre necessità.

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