PRATO. In tanti, tanti anni di teatro, ci siamo imbattuti spesso in calorosi scroscianti applausi tributati a modeste compagnie al termine di modeste, modestissime rappresentazioni. Ieri sera, invece, nonostante la Coppa Ubu che il Metastasio (grazie al fortunato progetto G.L.A.) sfoggia, orgogliosamente, nella vetrina della biglietteria (ci sarà anche stasera, alle 19,30 e domani, per la pomeridiana delle 16,30), il pubblico, senza mezze misure (giovani liceali e abbonati storditi), al cast de I due gemelli veneziani ha prudentemente riservato un immotivato avaro e languido battito di mani. Strano, perché chi ama il teatro e chi avrebbe la presunzione di volerlo fare, spesso solo dietro suggerimenti terapeutici, per uno spettacolo del genere dovrebbe pagare qualcosa in più del normale prezzo del biglietto. D’accordo, Carlo Goldoni e le sue storie sono state, e lo saranno per l’eternità, probabilmente, usate, interpretate e seviziate in ogni salsa, ma questa, riadatta da Angela Demattè e affidata alla cura di Valter Malosti, è, oggettivamente, un’operazione arguta, che si spoglia, fino alla nudità, della scenografia e chiede, agli attori, di riempirla con la smorfia, le parole e il corpo, i vecchi, intramontabili, tre requisiti che dovrebbero possedere tutti coloro ai quali si offre la possibilità di salire su un palcoscenico.
Due ore, scarse, in compagnia di un superlativo Marco Foschi (che indossa gli abiti, e con questi la fragilità e la superbia dei due gemelli Zanetto e Tonino) e un magistrale Danilo Nigrelli, che diventa il viscido e infingardo, fin nel midollo, Pancrazio. A loro, Malosti, chiede gli straordinari, anche se nessuno, tra i comprimari, soffre di sindrome da minor prestigio e si permette di non dare e regalare l’anima. Si potrebbe e si dovrebbe parlare, con maggior insistenza, dell’opera di (de)contestualizzazione e rivoluzione che all’epoca della stesura fece il romanziere veneziano e che il regista di questa rilettura, prodotta dal Teatro Stabile del Veneto, dal Teatro Piemonte Europa, dal Met e dal Teatro Nazionale, ha avuto l’abilità di esorcizzare ulteriormente. O ci potremmo concentrare sulle radiografie attoriali di Marco Manchisi (Pulcinella prima, Arlecchino dopo), Anna Gamba (Rosaura), Irene Petris e la sua deliziosa esse di pezza (Beatrice) e le varie figure e abiti indossati da Alessandro Bressanello, Valerio Mazzucato, Vittorio Camarota e Andrea Bellacicco, senza dimenticare la gradevole sensuale sfrontatezza della serva Camilla Nigro. Come merita, senza letali omissioni, una menzione speciale il progetto sonoro, l’impianto fonico, quello allestito da G.U.P. Alcaro, abile ad ambientare e catapultare nel futuro scenico una scrittura che si porta sulle spalle circa tre secoli di storia. La nostra attenzione, invece, si deve e si vuole fermare e concentrare sui singoli personaggi e sui loro intrecci scenici, sull’equivoco, sul doppio, sulle parole che hanno un senso e che potrebbero averne un altro, sullo spazio orizzontale, come se il palcoscenico fosse una sottilissima lingua di legno sulla quale, gli attori, sono costretti a recitare mantenendosi, abilmente, in equilibrio, senza dare mai l’impressione di temere di cadere a terra da un momento all’altro. Un teatro vuoto, scheletrico, riempito dagli studi e dall’abnegazione, dalle immedesimazioni e dalle reincarnazioni, dalle fondamenta della sua ragione di esistere e continuare a essere.