FIRENZE. Meglio non addentrarsi in quei 55 giorni che hanno cambiato il volto e il percorso della Storia di questo paese (la minuscola è d’obbligo, diamine)! Anche perché non è questo l’intento di Fabrizio Gifuni, che invece che allestire spettacoli, scusate, meteoriti, proverebbe a cavalcare il dorso della politica per ritrovarsi poi, a due passi dalla verità, a dover fare marcia indietro, come è successo a tanti; tutti no, ma quelli che han tirato diritto, non hanno potuto raccontarla. E l’elenco è lungo, molto lungo. Però, le ombre sul sequestro, la prigionia e l’assassinio di Aldo Moro sono troppe e particolarmente ingombranti e nonostante sulla vicenda si sia posta, da tempo, una pietra tombale che sa di macigno, è forse il caso di studiare; non solo per non dimenticare, ma perché qualcosa, probabilmente, si può ancora evitare. Per questo Gifuni si è messo all’anima di portare in scena un suo esperimento, Con il vostro irridente silenzio (alla Pergola, di Firenze, fino a domenica prossima, 23 gennaio), che altro non è che un microscopico epitaffio di una delle lettere che l’allora Presidente della Democrazia Cristiana scrisse ai suoi amici, tra i quali l’allora segretario Benigno Zaccagnini.
La storia è nota da molto tempo: il paese (la minuscola, qui, è per dignità), durante la prigionia Moro, si scoprì irremovibilmente intransigente, decidendo, in pratica, sin dal primo giorno, quel 16 marzo 1978, le sorti di uno degli statisti più illuminati, culminate con l’esecuzione avvenuta il 9 maggio successivo con tanto di macabro e provocatorio ritrovamento del cadavere nella bauliera di quella mitica Renault 4 rossa, annunciato telefonicamente, a due passi da piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, le rispettive roccaforti della D.C. e del P.C.I, che Moro, proprio la mattina del misterioso sequestro, avrebbe per la prima volta nella storia d’Italia condotto alla guida politica della Nazione. Siamo fortemente tentati di proseguire nella disamina politica dell’accaduto perché su quella vicenda preparammo, proprio con il figlio Giovanni che ci concesse una pacifica irruzione nello studio del padre per tre lunghissimi giorni, la nostra tesi di laurea, alla Facoltà fiorentina di Scienze Politiche, presentata e discussa nel giugno del 1990, con modesti (66 il voto finale), ma eclatanti (dovemmo impugnare i diritti dello studente per discuterla, dopo quattro bocciature) risultati. E vorremmo iniziare dalla minuscola caratura intellettuale dei braccianti che lo tennero in ostaggio (Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Anna Laura Braghetti, Adriana Faranda, Prospero Gallinari, Germano Maccari, Mario Moretti, Valerio Morucci; in ordine alfabetico, non di efferata demenza criminale) e che dopo aver dato saggio militare e balistico (89 bossoli esplosi in via Fani: uccisi i cinque agenti della scorta, che riuscirono a esploderne solo 3, Moro illeso: ma c’era Moro in via Fani, o lo prelevarono la mattina presto in chiesa, tanto che uno speaker di Radio Città Futura, la radio del Pci, ne annunciò il sequestro un’ora prima)? avrebbero dovuto processarlo. Ma gradiremmo anche sapere perché, ad esempio, in via Gradoli, lussureggiante stradina popolata di villette e condomini esclusivi, quasi interamente di proprietà di sinistri personaggi della Massoneria, a sfondo cieco, lungo la via Cassia, la Polizia suonò il campanello del civico 11 dopo aver ricevuto ragguagli da una seduta spiritica, invece che fare un’irruzione con i Nocs, le teste di cuoio, come avvenne invece a Trieste tre anni dopo, nel dicembre del 1981, per liberare dai brigatisti il generale James Lee Dozier. E ci premerebbe anche sapere perché dall’8 settembre 1974 in poi, giorno dell’arresto a Pinerolo di Renato Curcio e Alberto Franceschini, traditi da Frate Mitra, le Brigate Rosse cambiano letteralmente strategia e dal sequestro Sossi e rtelativo rilascio, iniziano a seminare una lunghissima, dolorosa, inutile e sadocinica scia di sangue, che parte con l’omicidio Moro e prosegue, senza soluzione di continuità, con quelli di Vittorio Bachelet, Walter Tobagi, Guido Rossa, Emilio Alessandrini (chiediamo scusa ai parenti di quelli non citati) e altri acerrimi nemici del proletariato. Ci fermiamo qui e proseguiamo parlando di Fabrizio Gifuni, invece, e della sua incommensurabile bravura, che legge, incatenato e immobile, per circa due ore, alcune delle lettere scritte, ma non tutte recapitate e divulgate in tempo utile, da Aldo Moro durante quegl’indimenticabili, ma dimenticati, cinquantacinque giorni: alla moglie Eleonora Chiavarelli, Noretta, ai figli, al nipotino, agli amici (?) Zaccagnini, Cossiga, Andreotti, Fanfani, Misasi, Pennacchini, Piccoli, al Papa, a tutti. Le uniche cose che ha facoltà di muovere, Gifuni, sono le braccia che sorreggono le lettere strette tra le mani, una didascalia tenera e nevrotica, impaurita e pietosa. Il resto lo muove con il diaframma, con un trasporto commovente e con la meravigliosa riuscita teatrale. Solo Fabrizio Gifuni, probabilmente, si sarebbe potuto caricare e incarnare nei panni lisi, nella speranza fioca, nella paura crescente, nella tragica lucidità, nella rabbia incontrollabile di Aldo Moro e dell’animo che lo spinse a scrivere, seppur non creduto, o creduto stordito, drogato, incapace di astrarsi dalla sua paura, per provare a salvarsi, per provare a non morire lì, in compagnia coatta di quegli estranei che non avrebbero dovuto avere nemmeno l’onore di potergli stringere le stringhe delle scarpe, in quegl’interminabili, ma terminati, cinquantacinque giorni. Uno statista imparagonabile; un attore straordinario.