PONTEDERA (PI). Il coraggio, uno, se non ce l’ha, non può darselo da solo, ma qualcuno, il coraggio di dirle, certe cose, deve pur trovarlo. Il declino del teatro, in Italia, sta assumendo pieghe oggettivamente preoccupanti, che sono il primo di una serie di specchi che riproducono, con spietata efficacia, la realtà sociale, alla quale, la pandemia, ha solo dato un robusto e al momento parrebbe letale colpo di grazia. E siccome il teatro vanta, vivaddio, dei predestinati, Michele Santeramo si è caricato sulle spalle la soma di questo ingombrante bagaglio e ha chiesto a Elisa Cuppini, Maurizio Donadoni e Francesco Puleo, moglie, marito, cognato, assemblati, oltre che dal parentado, anche dalla professione attoriale, di lanciare nell’etere il grido di disperazione e invocazione: Svegliami. Un’ora, poco meno, per assistere alla scena finale di una delle innumerevoli riproduzioni in maschera di uno dei caposaldi del teatro, immagine eloquente per confrontare, fino alla totale immedesimazione, l’attore con lo spettatore, l’artista con il cittadino, il recitante e il suo fruitore. La differenza è sottile; in più di un’occasione si perde il punto di vista dello spettatore e si crede, per un meccanismo perverso, ma naturale, di essere lì, sul palco, a recitare. Nessuno, tra gli astanti/paganti è/sarebbe in grado di fare quello che Elisa, Maurizio e Francesco eseguono sotto le direttive del regista, Roberto Bacci, sulle musiche di un altro degli aficionados dello scrittore, Ares Tavolazzi.
Perché il teatro della vita è altrettanto faticoso, difficile, rischiosissimo: saremmo in grado di scendere dalla ruota del criceto della vita improvvisamente, rinunciando a tutto quello che quella perniciosa giostra comporta? E ci siamo mai chiesti se la nostra esistenza, a parte alimentare e celebrare noi stessi, a chi altro giovi? Ci accontentiamo fino a convincercene che il pubblico presente, quelle decine di spettatori, che alla fine della rappresentazione, si spellano le mani, rincuorandoci, rappresentino, realmente, il mondo circostante con il quale crediamo di interfacciarci e capirci. Oppure i nostri sermoni, i nostri studi, i nostri esercizi ginnici e mnemonici, altro non sono che manifesti, già scritti, di spettacoli andati in scena e in onda chissà in quante altre occasioni. Prima di arrivare alle estreme conclusioni, che si manifestano e materializzano con il desiderio di porre fine a chi crediamo rappresenti l'ostacolo alla nostra felicità, dovremmo forse interrogare noi stessi e le nostre volontà su quello che abbiamo fatto per meritare altro. Cosa abbiamo mai fatto per la verità? Cosa abbiamo mai fatto per sottrarci dalla routine dell’ossessiva ripetitività esentando, noi stessi e i nostri copioni, dal poter continuare a vivere dormendo? Certo, i vincoli per la sopravvivenza scatenano, troppe volte, compromessi che spesso non avremmo mai potuto contemplare, ma cosa siamo riusciti a opporre a una deriva che ha finito per trasformaci in figuranti di noi stessi? Stavolta, Michele Santeramo, invece che regalarci la sua meravigliosa poesia, quella sussurrata con un fil di voce in monologhi che hanno quasi sempre il tono di fiabe terrificanti, da vietare, assolutamente, alla fruizione dei più piccoli, ha preferito restare sul limitare della scena delegando i suoi legittimi interrogativi, le sue comprensibili preoccupazioni e la sua meravigliosa e creativa rabbia a tre colleghi, ai quali ha chiesto di sondare, tra il pubblico del Teatro dell’Era (dove si replica stasera e domani pomeriggio, domenica 13 febbraio) se questo teatro e questa vita occorra continuare ad alimentarli in questo modo. Può bastare immergersi e rileggere i classici senza trarne il doveroso e vitale insegnamento? Può bastare incolonnarsi in macchina la mattina a bordo della propria autovettura per andare a timbrare un cartellino che certifica la nostra presenza sul lavoro, ma non certo la nostra consapevolezza, prima ancora che la nostra felicità? Ci accontentiamo delle sale piene di spettatori che non ci chiedono nulla, se non farsi lobotomizzare per un paio d’ore? Ci accontentiamo dei nostri stipendi, delle nostre mogli/mariti, di figli che crescono anniluce lontano dai nostri valori, dalle nostre convinzioni, dalle nostre ideologie che credevamo dogmi. A fare gli attori, chi più chi meno, abbiamo imparato tutti: qualcuno, quelli ufficiali, ha frequentato le scuole di arte drammatica; gli altri, tutti gli altri, la vita di tutti i giorni. È ora di svegliarsi, con la consapevolezza che potremmo non essere più in tempo, però, nonostante l'esortante preghiera di Michele.