PRATO. Avete presente i quadri di Lucio Fontana? Per qualcuno sono il battesimo dello spazialismo, per molti altri, non solo tra i profani, una tecnica, infingarda, per aggirare le tappe della gavetta e piombare al successo. Con Pippo Delbono siamo sempre assillati dal medesimo dubbio: è un maledetto visionario, che si è cibato di tutto e di tutti, come la peggior pianta saprofita in circolazione, o un adorabile impostore? Anche ieri sera, al termine di Amore, al Metastasio di Prato (fino a domani, domenica 20 febbraio), il busillis, qualora fosse ancora possibile accrescerne le incertezze, si è amplificato. Che conosca – e perfettamente - il teatro, la poesia, la musica, la danza, la fotografia, l’architettura, l’arte in qualsiasi forma espressiva e immaginabile, è un dato di fatto semplicemente inoppugnabile: ogni fermo /immagine, tutte le note, l’uso accecante del cromatismo, il riciclo degli ultimi, l’opzione possibilistica della follia, da Bobo in poi, senza soluzione di continuità, dimostrano, ad un ogni istante di una sua qualsiasi rappresentazione, la totale percezione e padronanza della materia. Da qui a farne un profeta, un acuto lettore esistenziale, un prodigo traduttore emotivo, però, a nostro avviso, soprattutto dopo aver trascorso stagioni indimenticabili in giro per il mondo assoldato come mercenario di apocrifa saggezza, il passo è tutt’altro che breve e per nulla scontato.
Anche con Amore (che gode e vanta di una coproduzione cosmica, alla quale il Met non ha voluto essere da meno) la teatralità è letteralmente e tassativamente assicurata, sin dagli esordi; il vecchio Peter Pan, che non ha i mille anni e passa che dimostra, percorre, in total white, un’ala della platea e si accomoda alla consolle, da dove leggerà, con quel diaframma tra Joe Cocker e Paolo Villaggio, i suoi dolori d’amore, ma anche le sue speranze, imprescindibili per chiunque. Che non sono, utile ricordare per dovere di cronaca oggettiva, quelli del giovane Werther, né il cosmicismo leopardiano, ma solo i suoi, che in questo specifico momento (che dura ormai da quasi tre anni), nonostante vanti un'adolescenza girovaga a contatto con le eminenze internazionali, sono assemblabili e assimilabili a quelli di un'incalcolabile moltitudine umana. A dargli polso, peso, sostanza e, in alcuni tratti, una poesia di struggente bellezza, le note portoghesi delle sei corde di Pedro Joia e Miguel Ramos, il canto, magnifico, a cappella, dell’angolana Aline Frazao e il solito irriverente, delicato, tragicomico, meraviglioso contorno della storica compagnia, Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo e Grazia Spinella. Anche tutto il resto risponde, con maniacale puntualità e precisione, alle direttive dello Spettacolo: l’ingombrante minimalismo scenografico, l’alternanza delle luci e della luminosità, un uso, alternato, di riduzione degli spazi, con un solo corpo presente per tutta la durata della rappresentazione; quell’albero spoglio, dai rami secchi, che ha il sapore, testamentario, della Ginestra che fu per Leopardi. Il viaggio parte dalle coste portoghesi e si trascina, lungo la sua vita, prendendo abilmente in prestito il tema dell’amore utilizzato, in un passato non trapassato, da punti fermi della poesia mondiale. Il crooner è lui, Pippo Delbono, che racconta tutto dal fondo della sala, con la bocca volutamente troppo vicina al microfono, tanto da distorcere alcune sillabe, rendere incomprensibili talune parole e dare, all’atmosfera, quell’aggiunta di pathos che in alcuni momenti, invece, si appesantisce inutilmente. Al termine del tragitto, con l’amore, in tutte le sue declinazioni, che finisce per prendere il sopravvento sulla vita e sulla morte, sul desiderio e sulla passione, sulla corresponsione e sul rifiuto, sulla concessione e la sottrazione, gli applausi, in un teatro vivaddio pieno, sono scroscianti e ininterrotti. Ma a noi, i dubbi, restano. Tutti.